La premier Sturgeon chiede il voto promettendo un nuovo referendum dopo la sconfitta del 2014 (prima della Brexit). Ma la realtà è che si tratterebbe di una secessione assai complicata

In fondo alla strada più antica e bella di Edimburgo, il Royal Mile, dopo una lunga discesa, c’è un palazzo: si chiama Holyrood, ed è il luogo in cui risiede il sovrano d’Inghilterra quando si reca a Edimburgo. Proprio di fronte al palazzo reale, sorge un altro edificio, quello del Parlamento scozzese, istituito nel 1999 per dare alla Scozia l’autonomia che con tanto vigore chiedeva. In quel Parlamento autonomo, da anni e in modo esplicito, si discute apertamente di indipendenza dal Regno Unito, un regno del quale la Scozia fa parte dal 1707, ma con il quale si accapiglia più o meno dal XII secolo.

 

La questione dell’indipendenza e dell’insofferenza scozzese verso l’Inghilterra e verso il Regno Unito è da sempre sostrato di ogni trattativa tra Edimburgo e Londra, ma di recente quest’ultima ha preso a farsi più aspra, tanto che nelle ultime settimane si è preso a parlare di nuovo di un referendum (dopo la sconfitta di quello del 2014) e di indipendenza.

 

In realtà, a quanto sembra, non ci sarà nessun IndyRef 2, nessun nuovo referendum sull’indipendenza e anzi, la posizione caparbia (al limite dello stolido) della premier scozzese Nicola Sturgeon, sembra indebolirsi e farsi più fragile ogni volta che alza la voce e che rinvigorisce le sue richieste di autonomia.

 

Una situazione paradossale nella quale la Scozia appare in stallo, finita in un vicolo cieco, e divisa tra chi chiede l’indipendenza e chi, invece, si accontenterebbe di un minimo di senso di realtà.

 

La ragione di questo stallo è che la premier scozzese Sturgeon, come il suo partito, lo Scottish national party, ha costruito gran parte del proprio consenso sul nazionalismo e sull’indipendentismo dal Regno Unito. Se dovessimo riassumere in una parola le posizioni dell’Snp, che pure si colloca vagamente a sinistra, la parola che useremmo sarebbe nazionalista. Nel 2007 il partito vinse le elezioni del Parlamento autonomo scozzese proprio schiacciando sul pedale dell’autonomia da Londra; nel 2011, poi, le stravinse con la promessa di organizzare un referendum per l’indipendenza. A questo punto, dopo che il governo autonomo scozzese era riuscito, con una lunga trattativa, a ottenere dal Parlamento britannico l’autorizzazione a tenere un referendum su una materia che, in teoria, non gli competeva il referendum per l’indipendenza si è tenuto davvero. E, nel 2014, gli indipendentisti, dopo una campagna elettorale a tappeto, a sorpresa, lo persero. E nemmeno di poco: 44 a 55 per cento.

 

Da quel voto in poi, la faccenda dell’indipendenza invece di chiudersi si è inasprita. Per almeno due ragioni. La prima è che, due anni dopo la decisione scozzese di rimanere nel Regno Unito, è arrivata Brexit. In Scozia il Remain, cioè la parte di quelli che volevano continuare a far parte dell’Ue, aveva stravinto con percentuali anche superiori al 60 per cento. Non solo: ma nel 2014, molti di quelli che avevano votato affinché la Scozia non divenisse indipendente dal Regno Unito, lo avevano fatto proprio per poter rimanere nell’Ue, cosa che una neonata repubblica scozzese non avrebbe potuto fare. La somma di questi due voti divergenti ha così creato una profonda ferita nell’animo e nella politica degli scozzesi che oggi si trovavano in una posizione molto diversa da quella che avrebbero voluto: legati a un Regno Unito che non hanno mai digerito fino in fondo e, allo stesso tempo, espulsi da un’Unione Europea di cui invece volevano essere parte.

 

A questa prima frattura si è sommata quella della necessità di sopravvivenza politica del partito Snp. Il partito è da tempo in affanno. Anche se, secondo i sondaggi è ancora il primo partito, il suo consenso è in forte diminuzione (dal 47 per cento a circa il 38 per cento).

 

E dunque, per un partito che dell’indipendenza dal Regno Unito ha sempre fatto la sua bandiera, non c’è altro modo di riprendere vigore che tornare ad agitarla, quella bandiera. E il modo per farlo è alzare la posta ogni volta che la strada si fa impervia o addirittura sbarrata.

 

Così, pochi giorni fa, dopo che i giudici della Corte Suprema britannica hanno stabilito che il Parlamento scozzese non ha il potere di indire un referendum sull’indipendenza a meno che non sia il Parlamento della Gran Bretagna a concederlo (cosa che Westminster a questo giro non ha nessuna intenzione di fare), la premier Sturgeon ha rilanciato e ha detto che saranno le prossime elezioni a decidere sull’indipendenza, diventando un referendum de facto. Tradotto in soldoni significa che se il suo partito, la cui proposta principale è l’indipendenza, dovesse avere più del 50 per cento dei voti, allora la partita si riaprirebbe.

 

Una scommessa audace, di quelle che se si perdono si perde tutto. E soprattutto una scommessa che al momento non sembra avere possibilità di essere vinta, anche perché nel farla Sturgeon sembra essersi dimenticata di tenere conto di vari fattori in gioco.

 

Il primo sono i sondaggi di opinione, che dicono che per quanto il consenso verso l’indipendenza sia cresciuto negli ultimi anni, è ancora al di sotto della magica soglia del 50 per cento (anche se di pochissimo: 49 per cento circa). Questo perché, secondo molti scozzesi, l’indipendenza sarebbe un salto nel vuoto troppo audace e per giunta con il rischio che la sola Scozia, che pure è ricca, non lo sia abbastanza da reggersi autonomamente.

 

La seconda è l’Europa: non sta scritto da nessuna parte che, nel momento in cui la Scozia facesse il bel gesto di lasciare il Regno Unito per correre verso l’Ue questa sia disposta ad accoglierla.

 

Anzi. Un’ipotetica Scozia indipendente dovrebbe essere sottoposta, come tutti i Paesi che fanno richiesta di adesione, ad un lungo processo che, nella migliore delle ipotesi, durerebbe 10 anni. In questi dieci anni la Scozia si ritroverebbe inevitabilmente al di fuori da qualsiasi rapporto commerciale e politico, sia con la Gran Bretagna che con l’Ue. Anzi: ci sarebbe il serio pericolo che l’adesione della Scozia all’Ue finisca come merce di scambio nel risiko diplomatico che da anni vede Ue e Regno Unito impegnati a gestire Brexit. Un rischio che nessuno si sente davvero di correre.

 

Non solo. La Scozia, per quanto rispetti molti dei requisiti richiesti dall’Ue, in realtà manca anche di infrastrutture legislative e istituzionali che, sino ad ora, ha delegato al Regno Unito (banalmente, non c’è un capo di Stato).

 

Infine, quello di cui Sturgeon sembra non tenere conto, è la stanchezza degli elettori che, probabilmente, dopo anni di dibattito avvitato sulla faccenda referendum sì, referendum no, e dopo un voto già compiuto, potrebbero voler iniziare a parlare d’altro. E soprattutto potrebbero non considerare allettante la promessa elettorale di un salto nel vuoto.