Il passato tramontato nel distretto minerario di Agrigento e Caltanissetta è il simbolo della fine di un domani moderno per l’Isola. Ora il paesaggio è punteggiato di ruderi e incompiute costate milioni (foto di Francesco Bellina per l’Espresso)

Nel silenzio di via miniera Ciavolotta, tra le sterpaglie bruciate e i campi ancora gialli volano i corvi, le “ciavole” appunto, come Pirandello aveva chiamato il protagonista di una sua novella, Ciaula scopre la luna, perché il suo lamento risalendo in miniera sembra quello di un corvo. Il territorio tra Agrigento e Caltanissetta, che ha ispirato lui e altri scrittori del Novecento, non può dimenticare il suo passato minerario, quando le due province rappresentavano il cuore pulsante dell’Italia nell’estrazione di zolfo e kainite.

E nella zona industriale di Agrigento tutte le vie ricordano quel passato produttivo onorato con la speranza che il futuro sarebbe stato altrettanto fruttuoso. Al termine di queste strade però, ad Agrigento, a simboleggiare la mancata rinascita industriale dell’entroterra siciliano c’è il Palafiera, opera avveniristica, costata più di tredici miliardi di lire insieme al centro direzionale, e rimasto un’incompiuta utile solo ai piccioni per nidificare. È il destino dell’illusione industriale della Sicilia, fatta di promesse non mantenute e di un futuro mai raggiunto che ha costretto molti paesini nati con le miniere a svuotarsi per spedire al nord i figli di quegli stessi minatori. Loro avevano costruito case con quei risparmi ma i figli che dovevano essere impiegati in quelle industrie sono già volati via, come corvi.

Racconta Giovanni Picone, oggi sindaco di Campobello di Licata, ora al secondo mandato: «Abbiamo cominciato a chiedere interventi quando ero un giovane consigliere comunale ma nulla è cambiato. Le strade sono asfaltate, c’è l’illuminazione al led ma le industrie non ci sono». Nella piccola zona industriale di Campobello di Licata l’erba spunta tra l’asfalto delle stradine interne, queste mai ammodernate: per realizzare quella zona industriale dove ci sono appena tre piccole aziende, negli anni Ottanta, sono state sbancate colline e distrutti vigneti, affinché ricadesse anche nel territorio di Ravanusa, come voleva l’ormai defunto onorevole Salvatore Lauricella.

Oggi anche la via che porta il suo nome, è però impraticabile. «Alle poche aziende esistenti manca l’acqua, la linea telefonica non prende, mancano i servizi e manca pure un centro direzionale. Come si può fare industria così?», si chiede Picone. Tra gli innumerevoli scatoloni vuoti immersi tra i vigneti dell’uva Italia, anche il centro direzionale, il palazzo di vetro, è rimasto vuoto. Fino a pochi anni fa, dentro quella struttura, costata 5 miliardi di lire, venivano tenuti i cavalli impiegati nelle corse clandestine. L’ente che doveva occuparsi di quelle zone industriali, l’Asi, è finito in liquidazione dopo aver accumulato debiti per centinaia di milioni di euro.

L’ultimo a lanciare una promessa fu Alfonso Cicero presidente dell’altro carrozzone chiamato Irsap, che nel 2014, annunciò la riqualificazione del centro direzionale, mai avvenuta. Ai giganti grigi rimasti vuoti fanno da cornice paesi svuotati, come Casteltermini: la zona industriale era nata dopo la chiusura della più grande miniera di zolfo della Sicilia, la Cozzo Disi, ma oggi dietro alla stazione ferroviaria dove passa un solo treno, ci sono poche aziende rimaste in vita, che insieme riescono a impiegare circa sessanta persone.

A pochi passi dall’ex fabbrica Montecatini che ne raccoglieva migliaia fino agli anni Ottanta. «Non è rimasto più nessuno in questa zona industriale c’è soltanto degrado», dice la barista che lavora a due passi dalla statale 189 che attraversa i paesi nati con le miniere. Dietro quell’area industriale mai sviluppata l’unica memoria è quella dei minatori che onorano la seconda settimana d’agosto Maria Santissima Annunziata, protettrice dei minatori della Cozzo Disi: «Preghiamo per i minatori morti in miniera per coloro che hanno lavorato e per tutti quelli che lavorano ogni giorno», celebra don Lo Coco, ostensorio e Bibbia in mano.

Il lavoro però a Casteltermini non c’è più e dei 15mila abitanti negli anni delle miniere, ne sono rimasti appena 7mila, tra cui i tre minatori che ogni anno celebrano la Madonna, mentre i loro figli abitano ormai fuori dalla Sicilia. Il ricordo delle miniere è sempre collegato a doppia mandata con la storia delle zone industriali siciliane: «Ieri gli zolfatai… oggi muoiono gli operai del Polo Tessile. Non parole ma lavoro». Così riportava uno striscione portato a mano durante una manifestazione dai lavoratori dei due grandi capannoni che erano sorti, nei primi anni 2000, nell’area industriale collocata a sud del piccolo paese di Riesi, in provincia di Caltanissetta: diecimila anime e con il primato dell’emigrazione all’estero, aveva vissuto un sogno.

Le chiamano ancora oggi “le fabbrichette”, e ci lavoravano circa 370 riesini. La maggior parte erano donne. Ricordano bene quei giorni di proteste e quello striscione Sandro, Gianni, Luca, Rosalba, Carla. Sono solo alcuni degli ex operai delle varie società nate sotto la stella “Polo Tessile”. «Era un sogno per Riesi. Tanti giovani, come noi, lavoravano li. Oggi sono tutti andati al nord», raccontano.

Davvero un sogno, per la Sicilia tutta, in un territorio che ancora oggi racconta del suo passato, delle miniere di zolfo. Una, la Trabia Tallarita, si trova proprio tra Riesi e Sommatino, percorrendo la strada delle solfare. Lì, in una società satellite lavorava anche il capomafia Giuseppe Di Cristina, ucciso negli anni Settanta a Palermo per volere dei corleonesi di Totò Riina. La Trabia Tallarita per metà è stata riqualificata in un museo, l’altra metà è rimasta incompleta e abbandonata al suo destino. Così come abbondonati al loro destino furono gli operai del “Polo Tessile di Riesi”, creazione dell’imprenditore Pietro Capizzi, che riuscì a sfruttare la concessione di una montagna di soldi pubblici e così costruire una delle più grandi e drammatiche illusioni. All’inizio tutto sembrava andare per il verso giusto, ma dopo alcuni mesi, dai ritardi dei pagamenti ai lavoratori e alle lavoratrici, arriva Guardia di Finanza.

Furono poste sotto sequestro le imprese del cosiddetto “Polo tessile di Riesi”, il cui valore complessivo era di circa 26 milioni di euro. Durante l’operazione furono sequestrati depositi bancari, titoli azionari, obbligazionari e di stato, contributi, finanziamenti. Un’illusione, l’ennesima nella terra del Gattopardo. Perché gattopardi lo furono i politici, interessati al consenso elettorale sulle varie casse integrazioni concesse ai lavoratori ormai licenziati.

In pochi anni dal sogno si passò all’incubo per chi aveva lasciato la terra di origine, dopo la chiusura delle miniere andando in Belgio o in Germania, ed era tornato per “le fabbrichette”. Debiti, mutui, e di nuovo la valigia pronta per l’Europa. Oltre il lavoro agricolo, spesso in nero, c’è ben poco a Riesi. Fino a poco tempo fa l’unica fonte di reddito erano le pensioni dei minatori appunto. «Quelle fabrichette testimoniano ancora oggi la distruzione di un intero territorio. È stato sbagliato concedere con la legge 488 tutti quei finanziamenti a fondo perduto», dice Salvatore Chiantia, sindaco di Riesi e presidente della cantina sociale La Vite, una realtà imprenditoriale che sta cercando di dare risposte concrete al territorio. «Tra poco inizierà la raccolta dell’uva, e speriamo di poter dare linfa vitale, economicamente parlando. C’è una ripresa dell’attività agricola imprenditoriale che sembra andare nella direzione giusta», dice seduto tra i quadri dei soci.

Oggi tutto è più chiaro tra le macerie e la “mattanza” di giovani che sono stati in qualche modo costretti a lasciare il loro paese. Intere vie e quartieri con su scritto “vendesi”, raccontano l’emigrazione a Genova, Torino, Milano e negli ultimi dieci anni a Bergamo. La zona industriale, a due passi dal cimitero comunale, è deserta. Niente più rumori di telai, camion e macchine di operai che entrano ed escono dai cancelli. I capannoni con tutto ciò che contengono sono stati messi in vendita da parte del tribunale fallimentare, nessuno mai ha voluto ricomprare e così riscattare quel poco che ne è rimasto. Non ci riuscì neanche quel mondo dell’antimafia, che poi è andato sotto inchiesta giudiziaria e che faceva capo all’ex presidente di Confindustria Sicilia, Antonello Montante, che proprio dal fallimento del “Polo Tessile” di Riesi, partorirono l’idea di impiantare in questa area la Zona Franca della Legalità, una zona defiscalizzata per gli imprenditori onesti e vessati dalle cosche.


È cambiata anche la narrazione del patron di “Riesi Maglieria” una delle società del più ampio Polo Tessile. Pietro Capizzi non è più il “papà di Riesi”, niente più file di gente alla porta per chiedere un posto di lavoro. L’uomo che vantava di parlare con il “tu” a Benetton, ha lasciato per sempre Riesi e i suoi concittadini. Il tentativo di andare oltre il Petrolchimico di Gela, unico insediamento industriale nella provincia nissena, è andato perduto per sempre.