Dal 1992 non si raggiungevano questi valori e l’ansia nel Paese, molto sensibile al tema, inizia a salire. Anche se il paragone con gli anni Venti e quanto accaduto con la Repubblica di Weimar è eccessiva

Un caffè berlinese, ore 11,30: per la prima volta da mesi non è il coronavirus il mantra della conversazione. «Ma lo sai che al supermercato spendo almeno un terzo in più rispetto a due settimane fa?», confida l’amico angosciato. «Non so proprio come andrà a finire».

 

È la variante economica della “German Angst”, la paura come tratto caratterizzante del tedesco medio: l’inflazione. Dal benzinaio o al ristorante, il riscaldamento e il pane nero e persino le amate biciclette: l’aumento dei prezzi brucia nel portafoglio e agita l’inconscio nazionale. Come riferisce l’Ufficio federale di statistica, a novembre l’inflazione in Germania ha superato il 5,2 per cento, il valore più alto da quasi tre decadi: l’ultima volta che si sono toccati numeri del genere è stato sull’onda della riunificazione, nel 1992, quando il tasso sfiorò il 5,8 per cento. «È lo shock dei prezzi: il nostro potere d’acquisto si sta sgretolando», grida la Bild, il più diffuso tabloid tedesco. È da qualche mese che i tedeschi seguono con ansia la curva ripida dei prezzi: dopo un decennio di acque calme in tutta l’Eurozona, a luglio il tasso è schizzato al 3,8 per cento. Lo stesso mese di un anno fa era a meno 0,1 per cento. Annota l’emittente Deutschlandfunk: «I tedeschi reagiscono in modo molto sensibile all’inflazione. È un trauma collettivo».

 

Ovvero: la locomotiva d’Europa, la patria dello «zero nero» (il dogma del pareggio di bilancio) e del «freno al debito» che ha permesso al governo di Angela Merkel di varare pacchetti d’aiuto da qualche centinaio di miliardi a botta durante l’onda più alta della pandemia, viene di nuovo confrontata con uno dei suoi spettri più antichi. È quasi un riflesso condizionato il paragone con Weimar, quando l’inflazione raggiunse il 662,6 per cento, la famosa «iperinflazione» che portò nel 1923 a far valere il marco un bilionesimo di quanto valesse nel 1914. «Nel settembre del 1923 il dollaro vale 50 milioni di marchi», recita in un video il Deutsches historisches museum. «A novembre tocca i 420 miliardi. Chi ha ancora un lavoro, a mezzogiorno incassa il salario giornaliero e corre subito a fare la spesa: basta appena per qualche wuerstel. Il pane costa 260 miliardi, per un etto di carne ci vuole l’intera paga: 3,2 milioni di marchi. I prezzi crescono ogni ora». È noto come andò a finire, dieci anni dopo.

 

Oggi è un’altra storia, ma per i tedeschi non è facile farsi rassicurare dalle parole di Christine Lagarde, presidente della Bce: «Ci aspettiamo che la crescita dell’inflazione non durerà. L’anno prossimo le acque si calmeranno». All’Eurotower spiegano che verrà meno l’effetto del taglio di tre punti dell’Iva, deciso per contrastare l’impatto della pandemia, e si ritiene che si attenuerà la fiammata sui prezzi energetici: la direttrice della Banca centrale europea, la tedesca Isabel Schnabel, pensa che «in novembre abbiamo toccato l’apice della dinamica inflattiva». Ma da Amburgo a Monaco passando per Dresda prevale l’ansia. «Niente reazioni di panico», mette le mani avanti l’economista Jens Suedekum. Il vero problema, aggiunge il presidente dell’Istituto tedesco per la ricerca economica Marcel Fratzscher, non sono tanto i costi energetici, ma gli affitti, che pesano sui redditi bassi: «Non sono poche le famiglie che spendono il 40 per cento del loro introito mensile per l’abitazione. Chi deve traslocare in una città come Berlino e si vede aumentare il costo abitativo del 20 per cento è obbligato a tirare la cinghia, a ridimensionare il proprio livello di vita».

 

Il punto è che qui scatta l’altro tormentone tedesco: la politica monetaria espansiva della Bce. Insiste tra gli altri Joerg Kraemer, capo economista di Commerzbank, che si dovranno «fermare gli acquisti» di titoli di Stato, il famoso quantitative easing o «bazooka» che dir si voglia. Anche la Bild spara a pallettoni: «Per fermare lo shock dei prezzi, la Bce potrebbe aumentare i tassi, ma non lo sta facendo». A ritroso, tutta colpa di Draghi, insomma. Che non a caso, nella sua vita precedente, veniva ritratto proprio dal tabloid come il «Conte Draghila», con tanto di denti aguzzi da vampiro. Il nostro amico, intanto, al supermercato scruta con attenzione ogni singolo bollino dei prezzi.