Il governo invita a diminuire i rapporti nei settori “tecnologicamente sensibili”. Ma le imprese vogliono continuare a fare affari. Eppure l’interscambio commerciale è gà diminuito

La Cina è vicina. Forse troppo, pensano a Berlino. E alla “Strategia sulla Cina”, un documento di 64 pagine reso pubblico il 13 luglio scorso, il governo tedesco affida il compito di stabilire la giusta distanza. La tensione riguarda un Paese che è definito come «partner» e come «concorrente e rivale sistemico». Fin qui, nessuna differenza con la prospettiva dell’Unione europea, che usa la stessa terminologia. Il punto è che agli occhi del governo tedesco «l’elemento di rivalità e della concorrenzialità sono aumentati negli ultimi anni», si legge nell’altro documento fondamentale che regola i rapporti con Pechino, la strategia nazionale sulla sicurezza presentato un mese fa. «Con la China-Strategie - scrive Olaf Scholz su Twitter - reagiamo a una Cina che sta cambiando e sta assumendo una posizione più offensiva». Il giusto equilibrio tra «partner» e «concorrente» in questi anni si è andato perdendo e l’ago della bilancia si è inclinato in direzione del «rivale sistemico» con un’aggravante: «La Cina usa il suo potere economico con l’obiettivo di raggiungere scopi politici», si legge a pagina 23 della strategia di sicurezza. Dunque è meglio andare verso un «de-coupling», cioè il disaccoppiamento delle due economie? Niente affatto. La Germania non può e non vuole rompere con il suo principale partner commerciale, soprattutto non è l’intenzione del mondo economico tedesco.

 

«Vogliamo un derisking, non un decoupling», ha spiegato il cancelliere Scholz. «Sarebbe sbagliato tagliare tutti i legami con la Cina, meglio minimizzare i rischi e fare attenzione a non diventare dipendenti e ricattabili su materie prime critiche e componenti tecnologiche sensibili, per esempio riguardo alla telefonia mobile», ha chiosato il portavoce Steffen Hebestreit. Il fatto è che se la politica a Berlino tuona nei confronti di Pechino, mettendo in evidenza «l’aggressività» del dragone, dall’economia tedesca arriva forte e chiaro un invito ad abbassare i toni. Indicazione raccolta nella sostanza dal documento tedesco di metà luglio che, al di là delle dichiarazioni, risulta piuttosto vago. Addirittura, secondo quanto riporta Handelsblatt, una prima versione del testo sarebbe arrivata in lettura all’ambasciatore cinese a Berlino Wu Ken che l’avrebbe liquidata come «guidata dall'ideologia». Dopo il leak, sempre secondo il quotidiano economico, il documento sarebbe stato modificato. I rapporti con Pechino sono in una fase delicata, in un momento molto serio per l’affaticata locomotiva d’Europa. Il 20 giugno nella capitale tedesca si è tenuto il settimo incontro intergovernativo tra Cina e Germania, nove ministri dei rispettivi governi si sono confrontati per un’intera giornata. «Sarebbe troppo dire che i colloqui sono stati un successo ma è sempre positivo confrontarsi», ha detto il portavoce di Scholz, all’indomani del vertice, il primo con una delegazione così numerosa dall’inizio dell’epidemia di Covid e il secondo dopo la visita del cancelliere in Cina lo scorso autunno. I rapporti con Pechino non sono più quelli dei tempi di Angela Merkel che in 16 anni di cancellierato ha fatto 19 viaggi in Cina di cui 11 visite di Stato.

 

Se gli equilibri politici sono cambiati, la Cina rimane il mercato più interessante per i tedeschi. E per capirlo basta dare un’occhiata allo scambio commerciale nel 2022: 298,9 miliardi. Nel primo trimestre del 2023 tuttavia - riferisce l’Ufficio Federale di Statistica - si è contratto del 10,5% il volume dello scambio rispetto al precedente, passando da 72,4 mld a 64,7 mld, mentre è cresciuto lo scambio con gli Usa che ha raggiunto i 64,1 mld. Che sia il caso di procedere con cautela nelle strategie? «Ciò che consigliamo è il derisking», ha chiarito il portavoce di Scholz, specificando tuttavia che si tratta di “consigli” perché poi «sono scelte imprenditoriali, non è lo Stato che decide». Anche la parola derisking, per quanto meno roboante di decoupling, per qualcuno può suonare indigesta. «Le aziende non possono diversificare da un giorno all’altro, ci vogliono diversi anni», ha detto Wolfgang Niedermark, membro della direzione della Bdi, la confindustria tedesca. Anche l’associazione delle industrie e camere di commercio (Dihk), pur condividendo l’apprensione del governo per una nuova dipendenza da Pechino, sottolinea che «la Cina è nell’ambito asiatico il mercato più importante per le imprese tedesche ed europee». E quindi, anche se il motto «cambiare attraverso il commercio» (Wandel durch Handel) non è più vero, «dubito che la rinuncia al commercio possa portare un cambiamento del mondo in senso migliorativo», ha sostenuto il presidente Peter Adrian. Quello che il ministero per l’Economia e il Clima per ora sta facendo è vietare la vendita a imprese cinesi di alcune realtà considerate di interesse strategico, come la fabbrica di chip e microconduttori Elmos, bloccare il sostegno statale a imprese di proprietà cinese come l’olandese Nexperia di Wingtech, e abbassare l’importo statale delle garanzie alle imprese che investono oltre un certo ammontare in Cina, costringendole a diversificare. Quest’ultimo, ovvero il regolamento sulla verifica degli investimenti, è il vero nucleo della strategia tedesca sulla Cina. Ma a domanda diretta il ministero dell’Economia risponde che «la modifica del regolamento è ancora in corso di elaborazione». Dunque di concreto finora c’è poco, se non che gli occhi sono aperti e sui settori sensibili la vigilanza è stata attivata.