Il sistema industriale tedesco comincia a investire in questa nuova fonte energetica pulita. Che non dipende da fornitori esteri. Ma la spinta decisiva deve venire dalla politica. L’Italia è in ritardo

Fino a qualche anno fa l’idrogeno era ancora un tema accademico, una chiacchiera tra futurologi pensosi con il pallino per l’ambiente. Poi la pandemia di Covid19 e l’aggressione russa in Ucraina hanno impresso un’incredibile accelerazione. E dalla teoria si è passati ai fatti, almeno in Germania.

 

L’impulso è venuto dall’iniezione di investimenti previsti dal Recovery Fund, per rimettere in moto l’economia dopo l’epidemia sotto il segno della sostenibilità, e dallo schok energetico arrivato con l’inizio della guerra, ci spiega Carsten Borchers, Managing Director del settore idrogeno di E-on. «Dopo il 24 febbraio del 2022, con l’invasione dell’Ucraina, abbiamo visto che anche la sicurezza dell’approvvigionamento energetico giocava un ruolo importante», dice Borchers, nella sala riunioni del grattacielo del colosso tedesco dell’energia E-on, davanti alla fiera di Essen, che in questi giorni ospita il più grande incontro di settore al livello europeo sull’energia, la E-world, Energy and Water.

 

Dopo il febbraio 2022 i pilastri su cui costruire le strategie energetiche sono diventati tre: costi, sostenibilità ambientale e sicurezza della fornitura. Una differenza chiave rispetto al passato, quando i costi erano il principale termine di orientamento. Troppo cara è costata infatti la dipendenza dal gas russo a buon mercato all’industria tedesca e al governo di Berlino per non imparare la lezione numero uno: diversificare. Nel 2022 l’Europa ha dovuto fare a meno di circa 790 terawatt di gas provenienti dai gasdotti russi. Una quantità difficile da immaginare e ancor di più da sostituire.

 

«Quello che ci ha mostrato la crisi energetica è che abbiamo bisogno di un sistema più resiliente, cioè non può poggiarsi su una gamba sola», spiega Jörg Bergmann, Ceo di Open Grid Europe, che si occupa della gestione di 12.000 km di rete di gas in Germania. È vero che l’idrogeno non è ancora diventato una commodity come il grano, lo zucchero o il petrolio. E quindi non è ancora una merce da scambiare sul mercato internazionale. «Ma se pensiamo al punto in cui eravamo con il fotovoltaico o l’eolico e a quali erano i costi qualche anno fa, si può prevedere che anche qui i costi scenderanno al crescere della concorrenza», continua Bergmann. In più l’idrogeno rispetto alle rinnovabili ha il vantaggio che «se quando il sole non brilla e il vento non soffia abbiamo un problema, con l’energia a idrogeno la soluzione è decisamente più facile», si può conservare ed è relativamente facile da trasportare via conduttura. Detto questo nessuno può prevedere quando si verificherà il tipping point, il superamento della soglia critica.

 

Dipenderà anche dall’orientamento della politica. La lezione numero due sulla crisi energetica, infatti, dice che è necessario pensare in termini di decenni, non di quinquenni legislativi e nemmeno in termini di assemblee annuali degli azionisti. Men che meno in chiave di propaganda elettorale hic et nunc. La dimensione di lunga durata è essenziale per pianificare la trasformazione. «Noi siamo pronti a fare investimenti importanti, ma la direzione deve darla la politica», continua Bergmann.

 

L’idrogeno può uscire dalla nicchia domani o più tardi. In Germania si stanno preparano perché i segnali non mancano. Soprattutto nel settore dei trasporti, dove i prezzi sono già adesso competitivi rispetto al diesel, dice Borchers. Con un chilo di idrogeno che costa 9 euro si può guidare 100-115 chilometri, mentre per percorrere la stessa tratta con un’auto a diesel di media cilindrata si pagano oltre 12 euro, con il diesel a 2 euro al litro. Spostarsi a idrogeno costa quindi un quarto in meno ed è a zero emissioni. «Per questa ragione nel trasporto di lunga distanza e per il trasporto pesante, è un’occasione unica», sostiene Uwe Kerkmann di H2Hub, l’incubatore europeo di start-up sull’idrogeno. «Io ci metto circa 6-7 minuti a fare il pieno, il tempo di una veloce pausa caffè», continua Kerkmann, «e posso guidare 550 chilometri, mentre con un’auto elettrica di grossa cilindrata potrei guidare appena un’ora».

 

«Naturalmente» - prosegue il Ceo di H2Hub, che ci incontra insieme ad un gruppo di giornalisti della stampa estera nella sede dell’agenzia di sviluppo della città di Essen - «per aumentare la domanda di auto a idrogeno servirebbe investire in una diffusione capillare delle stazioni di ricarica». In Germania sono 105 «ma ne servirebbero almeno il doppio», dice Kerkmann. In Europa a fine 2022 erano 214, secondo il data base della Lbst, mentre nel mondo erano 814. Pochissime in confronto alle oltre 14.000 pompe di benzina solo in Germania, ma osservato da vicino è un trend di tutto rispetto. Sono il 20% in più rispetto al 2021, cresciuto a sua volta del 20% rispetto al 2020. Insomma, un numero limitato ma in rapidissima crescita. Soprattutto in Asia.

 

L’Italia intanto resta a guardare, come spesso accade sul clima. Dal 2019 al 2022 i passi avanti sulle stazioni di ricarica sono minimi e siamo ultimi in Europa. In altri settori come l’industria o il riscaldamento degli edifici l’impiego dell’idrogeno potrebbe essere più lento, sostiene il manager di E-on. I lavori per creare l’infrastruttura di trasporto dell’idrogeno tuttavia procedono secondo i piani. Nel 2026 dovrebbe essere completata la tratta che attraversa la Ruhr, il progetto Get H2, nato nell’alveo europeo dei progetti Ipcei. E i lavori sono a buon punto, i contratti firmati e si è in attesa delle autorizzazioni degli enti locali. Mentre entro il 2032 si dovrebbe portare termine il progetto H2Ercules, una pipeline per l’idrogeno da oltre 2000 chilometri collegata a 5 paesi europei.