Il 31 ottobre comincia a Glasgow la conferenza Onu sul clima (Cop 26). Il cambiamento richiede un piano di investimenti massiccio. Incompatibile con i criteri di Maastricht e con le politiche tradizionali. Parla Gaël Giraud, uno dei massimi economisti ambientali

«Senza misure strutturali e una revisione dei meccanismi finanziari, la tanto decantata transizione ecologica sarà un semplice greenwashing». Ex brillante banchiere, oggi padre gesuita e direttore dell’Environmental Justice Program della Georgetown University, Gaël Giraud è uno dei propugnatori della prima ora della necessità di portare avanti un cambiamento radicale delle nostre società che passi per una totale de-carbonizzazione. In un libro del 2013, “La transizione ecologica. La finanza a servizio della nuova frontiera dell’economia” (Emi), metteva in evidenza le difficoltà di una sfida che oggi è più che mai al centro del dibattito pubblico. Lo incontriamo a Roma in un momento di pausa tra varie conferenze nella sede della Fondazione Magis, l’opera missionaria della provincia euro-mediterranea della Compagnia di Gesù.

L’Europa ha lanciato un ampio programma di de-carbonizzazione, rivedendo al rialzo i target di riduzione delle emissioni al 55 per cento entro il 2030 rispetto al livello del 1990. Cosa non la convince?
«Una reale transizione verso una società a zero emissioni deve poggiare su quattro assi: la sostituzione dei combustibili fossili con fonti di energia rinnovabile, il rinnovamento termico degli edifici, la mobilità verde, la trasformazione dell’industria e dell’agricoltura verso modelli meno energivori. Questa transizione costa moltissimo. Con i vincoli imposti dal trattato di Maastricht per la riduzione del debito pubblico, gli Stati oggi non hanno i mezzi per finanziare un cambiamento così radicale. Io lo dico da tempo: non ci sarà mai un autentico green new deal europeo fintanto che non rivedremo radicalmente i meccanismi di funzionamento dell’Unione europea e non metteremo la finanza al servizio della transizione ecologica».

Quanto costa la transizione ecologica?
«Secondo i miei calcoli, bisognerebbe spendere 500 miliardi l’anno nella zona euro. Solo per l’Italia ci vogliono 70 miliardi l’anno. Ogni anno bisognerebbe prendere dal bilancio europeo questa cifra. Come fare? Mettendo una tassa carbonio, o una tassa sulle transazioni finanziarie, o rimettendo una tassa sul capitale. Se poi regolamentassimo i paradisi fiscali in Europa, come l’Irlanda, il Lussemburgo, i Paesi Bassi, se obbligassimo la Svizzera e il Liechtenstein a una maggiore serietà, avremmo un vero budget europeo che potrebbe essere distribuito nei paesi per una vera transizione ecologica».

 

Intanto però l’Unione europea ha destinato circa un terzo dei 750 miliardi di euro complessivi del fondo Next Generation Eu proprio alla transizione verde. Non lo vede come un cambio di passo?
«Sì, ma sono sempre debiti, che bisognerà ripagare. E si tratta di una misura una tantum: l’anno scorso, la Germania ha dato il via libera a un’emissione di debito, ma ha specificato che si trattava della prima e dell’ultima volta. Per rendere questa misura credibile, bisognerebbe in primo luogo fare in modo che non si richieda agli stati di rimborsarli. Poi, bisognerebbe non computare nel calcolo del 3 per cento di rapporto deficit/pil tutti gli investimenti necessari alla transizione ecologica. Questo si può fare senza cambiare i trattati. A Bruxelles si devono convincere che per la zona euro si tratta di una questione di sopravvivenza. Fintanto che la Commissione europea non si impegna in una riflessione seria su questo punto, si faranno piccole cose marginali, che saranno contornate da un grande apparato di comunicazione, ma di fatto non cambieranno granché. Nella situazione attuale, gli Stati non sono nelle condizioni di poter fare investimenti a lungo termine».

Il ministro italiano Roberto Cingolani ha detto che una transizione troppo rapida sarebbe un bagno di sangue. Perché nell’immaginario collettivo la transizione ecologica è vista come un fardello piuttosto che un’opportunità?
«Tutti i ministri dell’Ecologia in Europa rallentano invece di accelerare per una ragione precisa. Perché le banche, comprese le banche italiane, hanno nei loro bilanci attivi finanziari legati alle energie fossili. Nel giugno scorso, ho fatto uno studio che analizzava la situazione delle 11 principali banche europee, fra cui anche le italiane Unicredit e Intesa San Paolo. Queste banche hanno complessivamente 500 miliardi di attivi finanziari legati alle energie fossili. Per ognuna si tratta in media del 95 per cento dei loro fondi. I banchieri hanno capito da tempo che se la transazione dovesse andare troppo veloce, le loro banche fallirebbero. Quindi tirano il freno a mano per impedire a tutti di andare avanti».

Un fallimento generalizzato delle banche non sarebbe facile da gestire. Come governare un tale passaggio?
«Io credo che a medio termine ci sarà comunque una crisi finanziaria determinata da questi attivi fossili paragonabile a quella dei mutui sub-prime del 2007-2008. Per evitarla, abbiamo di fronte tre opzioni: la prima è nazionalizzare tutte le banche che falliscono, ma è un’opzione pericolosa perché il fallimento di una banca è difficilmente controllabile. Secondo opzione: ogni paese crea una bad bank, che compra gli attivi fossili delle banche private e si assume le perdite determinate dal crollo di questi attivi fossili. Il problema è che in questo caso, aumenterebbe il debito pubblico e alla fine sarà il contribuente a pagare questo passaggio. Una terza opzione, che è indolore per tutti, è che la Banca centrale europea (Bce) riacquisti gli attivi fossili. La Bce può tranquillamente farlo senza grandi scossoni. Ovviamente dovrebbe farlo a condizione che queste banche non investano più nelle energie fossili».

Perché questo tema non è nel dibattito pubblico?
«Perché gli economisti ortodossi si oppongono. Il governatore della banca centrale di Francia mi ha detto che la cosa sarebbe tecnicamente fattibile, ma è politicamente ingestibile perché creerebbe il caos. La verità è che non vogliono che i popoli si rendano conto del potere di creazione monetaria della Banca centrale europea».

Perché insiste nel dire che l’Unione Europea dovrebbe guidare la transizione ecologica? Si tratta di 27 stati, che parlano lingue diverse, hanno diverse culture, diverse modalità di produzione di energia. Non è più semplice che il processo sia trainato da una realtà più coesa come gli Stati Uniti?
«Per fare la transizione ecologica ci vogliono i soldi, degli ottimi ingegneri e una popolazione che riesca a resistere al cosiddetto “effetto rimbalzo”, per il quale ogni volta che facciamo dei passi in avanti nella produzione energetica li perdiamo perché inventiamo nuovi bisogni energetici. Da questo punto di vista, la società statunitense è una società energivora ed è almeno una generazione in ritardo rispetto all’Europa. Quindi come società leader di questa transizione possono esserci l’Europa o il Giappone, ma quest’ultimo è intrappolato nella deflazione da più di 25 anni. Anche l’Europa è sull’orlo della deflazione; se finiamo come il Giappone non si farà mai la transizione ecologica. Per questo ci vuole un grande piano volontaristico, che crei occupazione, che faccia inflazione. Bisogna regolamentare la finanza e fare quell’operazione chirurgica sulle banche europee che dicevo prima. Questa transizione permetterebbe di creare 6 milioni di posti di lavoro solo in agricoltura, perché faremmo un’agricoltura in cui ci sono meno input chimici e più esigenza di lavoratori».

Se la politica arranca, il cambiamento non potrebbe partire dagli individui?
«Gli individui più austeri, i più eroici che fanno una vita da francescani, possono ridurre la loro impronta ecologica del 20-25 per cento. Questo è il massimo risultato che si può raggiungere diventando tutti vegetariani, non prendendo più l’aereo, muovendosi solo in bici, ecc. Il restante 75 per cento dipende dagli stati, dalle regioni, dalle città: è necessario che le finanze pubbliche si assumano le loro responsabilità».

Un sondaggio realizzato dalla Fondazione Magis presso gli allievi dei collegi gesuitici ha mostrato che per gli studenti il cambiamento climatico è la principale preoccupazione. Ma lo stesso sondaggio mostrava una difficoltà a immaginare soluzioni. Ha speranza nei giovani?
«In realtà la stessa incapacità nell’immaginare soluzioni si vede anche tra le generazioni più vecchie. Anche io ho fatto un sondaggio tra i miei studenti: uno su quattro dichiarava che non avrebbe fatto figli perché non li voleva mettere al mondo in un pianeta così compromesso. C’è un’inquietudine diffusa. Ma al contempo c’è una grande voglia di fare. Quando fornisci loro gli strumenti, i giovani capiscono più rapidamente e cominciano a immaginare soluzioni in un modo straordinario. I miei studenti mi danno energia e grande speranza per il futuro».