Cancellati i vecchi manicomi giudiziari, le nuove strutture sono ancora inadeguate. Pensate per i casi più gravi, non bastano a soddisfare le richieste. Mancano luoghi di cura alternativi e nelle carceri crescono le liste d’attesa

Gli occhi di Marco sembrano parlare. Con lo sguardo racconta della sua sofferenza, della sua incertezza. Vivere in una Rems (Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza) vuol dire vivere senza prospettive. Avverti consapevolmente di portare con te uno stigma: hai infranto la legge e sei un paziente psichiatrico, te l’ha detto il perito quando ti ha visitato, un giudice l’ha confermato in tribunale. Anche chi ti conosce inizia a chiamarti «pazzo», spesso ha paura.

In Italia esistono 31 Rems: strutture nate per accogliere persone che, dopo aver commesso un reato, sono considerate incapaci di intendere e di volere, e socialmente pericolose. Secondo l’ultima relazione del Garante nazionale dei detenuti, in Italia in queste realtà sono accolti 577 ospiti.

 

Le Rems nascono nel 2014, dopo la chiusura degli Ospedali psichiatrici giudiziari (Opg). Il mondo della politica era sconvolto dalle immagini che nel 2010 la Commissione d’inchiesta, presieduta dall’ex senatore Ignazio Marino, aveva acquisito sulla vita all’interno degli Opg. Le condizioni degli edifici erano disastrose.

 

Guardando i video girati all’epoca dai parlamentari, rimane impressa l’immagine di un uomo che, urlando da dietro a una porta, chiedeva «dove fosse finita l’Italia» e per quale motivo «l’avessero chiuso là dentro». L’allora presidente della Repubblica Giorgio Napolitano parlò di «estremo orrore», dopo aver visto quelle immagini.

 

Il governo decise di sopprimere gli Opg e di creare strutture che avessero come fine principale quello della riabilitazione. Doveva essere risolta l’ambiguità degli ospedali psichiatrici: per metà luoghi di cura e per metà luoghi di detenzione. L’obiettivo delle Rems era seguire le indicazioni della legge Basaglia, che nel 1978 aveva sancito la chiusura dei manicomi civili introducendo la cultura della malattia mentale come malattia sociale.


Per dimenticare gli orrori degli Opg, il governo presieduto da Matteo Renzi decise nel 2014 di creare strutture più piccole, con al massimo 20 posti, diffuse sul territorio e gestite esclusivamente dal personale sanitario. Per Franco Corleone, che nel 2016 era stato incaricato dal governo di vigilare sul definitivo superamento dei manicomi criminali e che ora si occupa di coordinare i Garanti territoriali dei detenuti, le Rems sono «un primo passo fondamentale».

 

Corleone parla di «rivoluzione gentile». Persistono, però, delle criticità. La legge del 2014 sancì il principio dell’extrema ratio: ancora oggi il ricorso alle misure di sicurezza, e quindi alle Rems, deve avvenire esclusivamente per quei pazienti per cui si considera inadeguata ogni altra soluzione meno restrittiva, come la libertà vigilata in una comunità protetta o in un domicilio.

 

Ma spesso ciò non accade. La maggior parte delle persone considerate incapaci di intendere e di volere vengono ricoverate nelle Rems. Non esistono molti progetti alternativi. «Il problema è che i giudici non hanno a disposizione una mappa dei luoghi di cura intermedi che possano sostituire la permanenza nelle Rems», spiega Gianfranco Rovellini, direttore della Rems veneta di Nogara, in provincia di Verona.

 

Forse anche per questo motivo le strutture sono sempre al completo e le liste di attesa non spariscono. Non è facile capire quante persone attendano effettivamente che si liberi un posto nelle Rems per potervi accedere. Al 30 novembre 2020, il Sistema di monitoraggio per il superamento degli Opg segnalava 175 persone in lista d’attesa (di cui il 31 per cento in carcere); i numeri però potrebbero essere più elevati: il Garante nazionale per i diritti delle persone private della libertà parla di 714 persone in attesa di ricovero. «Il problema è che il 38 per cento dei posti letto è occupato da pazienti che stanno scontando una misura provvisoria (aspettano ancora quindi una decisione definitiva da parte di un giudice, ndr)», chiarisce Corleone contestando i dati.

 

La questione delle liste di attesa è arrivata anche all’attenzione della Corte costituzionale. A richiedere l’intervento della Consulta è stato il Tribunale di Tivoli, sottoponendo ai magistrati il caso di un uomo dichiarato incapace di intendere e volere al momento del reato: avrebbe dovuto essere ricoverato in una Rems, ma è finito in carcere perché non ha trovato posto. Il tribunale di Tivoli chiedeva alla Consulta di pronunciarsi sulla costituzionalità di due elementi essenziali nell’organizzazione delle Rems: la gestione sanitaria delle strutture, che lascia in disparte il ministero della Giustizia, e il limite di capienza. Il 24 giugno la Corte costituzionale ha deciso di rinviare di 90 giorni la decisione, chiedendo dati precisi sul funzionamento delle Rems.

 

«Bisognerebbe interrogarsi sul perché esistono così tante persone in lista d’attesa. Siamo sicuri che il principio di extrema ratio venga applicato?». Stefano Pellizzardi, direttore della Rems di Castiglione dello Stivere (in provincia di Mantova), si pone queste domande di continuo.

 

Dal suo ufficio si vede il giardino che circonda e collega le sei unità abitative della struttura. La Rems di Castiglione dello Stivere è la più grande di Italia: divisa in diversi edifici, può ospitare 160 persone (di cui 20 donne).

 

Le prime cinque unità accolgono 20 pazienti ciascuna, come prescrive la legge. L’ultima, la più grande, 60. Da anni, la Regione ha attivato un progetto di riorganizzazione della struttura per far in modo che siano rispettate le indicazioni legislative sulla capienza. I lavori, però, non sono ancora iniziati.

 

«Al tempo l’amministrazione regionale scelse di non costruire una nuova realtà, ma di riorganizzare quella dell’Opg», spiega Pellizzardi. Una decisione che secondo Corleone non rispetta quanto stabilito nel 2014 e rischia di riportare alla luce «logiche contenitive». Tuttavia, nonostante le difficoltà, in questi anni a Castiglione dello Stivere è stato garantito un buon turnover: su 160 pazienti sono stati dimessi in media 70 ospiti all’anno.

 

«Per dimetterli dobbiamo trovare un percorso territoriale terapeutico e di riabilitazione a cui assegnarli», racconta Noemi Panni, coordinatrice e responsabile dell’Area sociale della Rems di Castiglione. Individuare progetti di reinserimento e cura non è semplice: spesso queste persone non hanno nessuno che possa accoglierli o aiutarli. Vorrebbero riprendere in mano la loro vita, iniziare a lavorare, ma si sentono tremendamente soli.

 

Secondo quanto stabilito nel 2014, le Rems devono avere un carattere di transitorietà: essere una delle tappe del percorso riabilitativo. I pazienti non possono essere ospitati nelle strutture per un numero di anni superiori al massimo della pena prevista per il reato commesso.

 

L’intento è garantirgli la possibilità di uscire quanto prima. Chi non è più considerato socialmente pericoloso deve essere dimesso e preso in carico dai Dipartimenti di salute mentale, strutture territoriali per la cura e l’assistenza che sono però poco sviluppate ed efficaci.

 

Si fatica a trovare un percorso alternativo e proprio questa difficoltà sta rendendo più lunga la permanenza nelle Rems. Secondo quanto riportato dall’associazione Antigone, che si occupa di diritti nelle carceri, al 30 novembre 2020 la durata media del ricovero è di 236 giorni, nel 2017 era di 206.

 

«Senza un progetto di cura, il giudice non può permettere le dimissione dell’ospite», aggiunge Panni. Al paziente viene prorogata la misura di sicurezza: rimane dov’è, sperando che prima o poi qualcosa possa cambiare.

 

Queste dinamiche accadono in particolare con i casi più complessi. «Uno dei punti da tenere in considerazione è la trasformazione dei pazienti: prima erano persone di una certa età con fragilità croniche, ora abbiamo molti ragazzi con problemi di tossicodipendenza piuttosto impegnativi da gestire e diversi stranieri senza fissa dimora che sono qui per aver commesso reati, come la resistenza a pubblico ufficiale», evidenzia Pelizzardi. Secondo il direttore di Castiglione dello Stivere, dover trattare pazienti così differenti non aiuta. Nelle residenze ormai arrivano sempre più persone con profili delinquenziali marcati o soggetti che non hanno problemi psichiatrici evidenti e potrebbero essere destinati ad altre realtà.

 

Pellizzardi indica un ragazzo che sta passeggiando nel giardino. «Lui viene dal Gambia, è arrivato in Italia dopo aver trascorso diversi mesi in Libia. È stato mandato a Castiglione per resistenza a pubblico ufficiale. Quando l’abbiamo accolto soffriva di stress post traumatico. Ora sta bene, ma è ancora qui con noi».

 

Dimettere gli stranieri è una delle pratiche più complesse. La difficoltà di individuare percorsi alternativi si sovrappone alle complicazioni legislative. «Devi, in primis, ricostruire la loro storia e poi cercare di regolarizzare la loro posizione. Spesso queste persone non hanno più il permesso di soggiorno o stanno ancora attendendo una risposta per la richiesta di asilo», spiega la coordinatrice Panni. La normativa in materia di immigrazione è molto complessa e richiede una forte collaborazione con le questure. Una strada percorribile è concordare con gli ospiti dei rimpatri volontari e prendere contatti con le ambasciate dei Paesi d’origine. Altre volte ci si affida al mondo del volontariato. A Castiglione adesso ci sono 35 stranieri su 160 ospiti.

 

Pellizzardi continua a chiedersi se non ci sia un luogo più adatto che dia la possibilità a queste persone di scontare la propria pena e, allo stesso tempo, di essere aiutate. Un primo passo potrebbe essere quello di sviluppare le articolazioni che all’interno delle carceri sono state costruite per occuparsi dei detenuti con fragilità mentali. Dovrebbero essere luoghi di cura in cui viene garantita un’attività di tipo terapeutico e riabilitativo. Ma anche in queste sezioni, come spesso accade nei reparti ordinari delle carceri italiane, prende il sopravvento la logica punitiva.

 

«Questi reparti dovrebbero diventare strutture a carattere sanitario in cui la polizia penitenziaria viene fatta entrare su volontà dei sanitari stessi», ipotizza Rovellini. Qui potrebbero essere accolti i detenuti che attendono di entrare nelle Rems, quelli che presentano fragilità mentali meno complesse e chi ha profili delinquenziali più marcati. «In Italia abbiamo solo 34 articolazioni di salute mentale, che ospitano 200 pazienti, ma davvero pensiamo che i detenuti con fragilità psichiche siano così pochi?», denuncia Rovellini. Per migliorare il sistema delle Rems e far in modo che sia davvero un’extrema ratio, si potrebbe iniziare da qui.

 

La decisione della Corte Costituzionale di arrivare a una sentenza dopo un ulteriore approfondimento dovrebbe aprire un dibattito sulla realtà di queste strutture e sugli aspetti da migliorare. Pellizzardi non sa cosa succederà. Rimane fondamentale continuare a reinventarsi. A breve a Castiglione dello Stivere aprirà anche un servizio di etnopsichiatria.