L’Espresso ha dedicato una lunga inchiesta alle condizioni delle strutture che hanno sostituito i manicomi criminali. Ma ci sono anche esempi virtuosi

Andrea, 25 anni, nome di fantasia, soppesa ogni parola prima delle domande impegnative. Un silenzio lungo, poi risponde. «Come mi sento qua dentro? Sulle montagne russe. Appena esco vorrei costruire una mongolfiera». Parla la sua «parte più sognatrice», quella pratica invece gli suggerisce di trovarsi un lavoro e farsi una famiglia. Un passo alla volta, lentamente. Perché Andrea è uno dei 20 pazienti della Rems di Bra, in provincia di Cuneo, Piemonte. Le Rems sono strutture sanitarie in cui sono ricoverati gli autori di crimini gravi considerati pericolosi per la società.

 

Nascono con l’obiettivo di curare la fase acuta della malattia e riabilitare il paziente attraverso un percorso di terapia e assistenza psicosociale. Che hanno portato Andrea, in attesa del processo per un fatto-reato commesso nel 2020, a riprendere gli studi.

 

«Appena arrivato non ero molto convinto. Mi mancava solo la laurea, gli esami li avevo finiti. L’ho fatto per me stesso e per la mia famiglia, che mi ha sempre sostenuto. È stato il mio modo per restituirgli almeno in parte quel che mi ha dato». Si è laureato in Scienze dell’informazione poche settimane fa, con una tesi sull’analisi del sentiment sui social media. Affiancato dall’educatrice e dalla psicologa, con la collaborazione della sua relatrice. La tesi scritta in struttura, ogni giorno dalle 13 alle 16, la fascia oraria in cui ai pazienti è consentito l’accesso a internet. «È stato impegnativo, qui dentro si vivono alti e bassi, il morale va giù anche per piccole cose. Ma nei momenti in cui ero più scoraggiato trovavo l’energia ricordandomi per chi lo stavo facendo. Non escludo di prendere anche la magistrale. Riguardando la mia storia, forse in psicologia».

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L’inserimento nelle Rems, spiega Grazia Ala, psichiatra nella struttura dove Andrea è detenuto, «deve essere l’ultima ratio». La scelta si prende qualora non ci siano misure alternative a gestire la situazione del paziente, ritenuto socialmente pericoloso e non imputabile perché parzialmente o totalmente incapace di intendere e di volere al compimento del fatto-reato. «I loro percorsi riabilitativi - prosegue Ala - devono favorirne il ritorno sul territorio. Nella stragrande maggioranza dei casi significa che l’uscita avviene in modo graduale e passa attraverso la permanenza in una comunità». Non è un passaggio obbligato, una piccola parte dei pazienti fa rientro al domicilio, ma è un’opzione poco frequente perché sono spesso autori di reati contro i familiari.

 

Medici e operatori lavorano per decostruire lo stigma che pesa sulla testa di ogni persona che hanno in cura. «Non dobbiamo mai stancarci di forzare i muri legati alla non conoscenza, al timore, al fatto che in queste situazioni si intersechino due topoi, quello del “cattivo” e del “folle”. I nostri pazienti sono gravemente malati e in una società civile hanno il diritto di essere assistiti», dice la dottoressa Ala. Quei muri si forzano portando fuori le persone chiuse dentro, impegnandole in attività artistiche e teatrali. Andrea ha scoperto di amarle, «al teatro devo molto perché suscita emozioni e crea normalità», racconta. Se non è impegnato con gli spettacoli, passa il pomeriggio a disegnare o leggere. Soprattutto poesie. Le ultime, quelle de “Il canto degli alberi” di Hermann Hesse.

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Anche Serghei, 26 anni, altro nome di fantasia, amante del calcetto e abile preparatore di tiramisù, ha scoperto di avere una vena artistica. L’ha unita a una sua vecchia passione, quella per i fiori, e così ha già pronta l’idea da realizzare per la mostra di luglio. «Porterò una pianta. Sarà al buio, coperta da un contenitore. In cima la scatola avrà dei piccoli fori da cui passa la luce, uno per ogni sensazione di libertà. Quella pianta sono io e metterò un foro per ogni cosa che mi piace fare. Uno per le attività, uno per le uscite, un altro per il lavoro». Da pochi giorni Serghei, in struttura da sette anni, ha infatti iniziato un tirocinio retribuito in un’azienda che produce vini. Lavora tutte le mattine, impegnato in attività di magazzino e a etichettare bottiglie. «Per il futuro nessun programma preciso, solo il bisogno di dare sempre il meglio sul posto di lavoro. Mi piacerebbe rimanere nell’azienda in cui sono adesso e guadagnare per avere la mia indipendenza economica».

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La Rems di Bra esiste dal 2015. «Le iniziative che organizziamo ci permettono di far capire ai cittadini che non siamo un problema per la loro sicurezza. I primi mesi avevano paura, il malato di mente autore di reato rappresenta la massima espressione di pericolo. Poi le cose sono migliorate», dice Luca Patria, psichiatra e collega della dottoressa Ala. Che aggiunge: «Le persone che arrivano qui hanno un enorme carico di dolore e lo portano con sé fin da piccolissime, quando dovevano essere protette. La causa della malattia non è tutta lì. Ma in quella condizione, spesso unita alla miseria materiale e morale, si rischia di rimanere impigliati se non si è biologicamente preparati a lasciarsela alle spalle in cerca del riscatto». Ed è da quelle catene che Andrea e Serghei stanno provando a liberarsi. Un passo alla volta, lentamente.