L’Italia ha un patrimonio culturale segreto, conservato nei depositi delle grandi gallerie. ?Dalle meraviglie del Rinascimento agli uccelli impagliati dell’800 il nostro viaggio nelle collezioni che il pubblico non può ammirare

Se sbucasse John Malkovich la somiglianza con il settimo piano e mezzo del film diventerebbe irresistibile. Ma su questo piano ammezzato, dietro una porta blindata, lavorano invece in piedi Michele, Marco e Demetrio. Sono i custodi dell’angolo più silenzioso e protetto degli Uffizi: i depositi. Una scala li separa dalle torme di turisti che scorrazzano ammirando Botticelli. I tre custodi si muovono quieti fra le rastrelliere che da quattro secoli mantengono viva un’antica tradizione: la collezione di autoritratti del cardinale Leopoldo Medici. Oggi è una raccolta che solo nei depositi va da Michelangelo a Jan Fabre.

Non c’è artista contemporaneo che non ambisca a donare il proprio selfie alla stanza segreta della memoria che ospita Delacroix. Ma le donazioni sono accettate raramente. Perché lo spazio è poco e la cura necessaria: duemila e seicento volti riposano già qui secondo un ordine rigoroso, che solo i custodi dominano pienamente. Molti dei quadri sono destinati a mostre, oppure ad affacciarsi al pubblico in una delle nuove sale ristrutturate l’anno scorso. «Io preferisco infatti chiamare questo spazio “centro logistico”», racconta il direttore degli Uffizi Eike Schmidt, da poco riconfermato per altri quattro anni: «La parola deposito mi dà idea di qualcosa di stanco e polveroso. Mentre per noi questa è parte attiva del museo: stanza d’ingresso per un’opera appena arrivata da un restauro, o che sta per partire per un’esposizione, ma anche terreno di studio e riscoperta».

È questo che sono, o dovrebbero, essere i depositi dei musei: una sala macchine, un luogo dove far battere, dietro le quinte, il motore capace di reggere l’intera istituzione. Trincerati in un sottotetto o riparati da hangar luminosi, aperti alle visite o dimenticati sotto chiave, quasi sempre a corto di spazio, di soldi, e di attenzione, i magazzini dovrebbero essere invece al centro della missione culturale dei musei. Il successo di un’istituzione si gioca infatti non solo sull’aumento di biglietti venduti, ma anche sull’investimento per la tutela, la ricerca, il coinvolgimento della comunità. E per la capacità di tramandare al futuro opere, mestieri e conoscenze accumulate in magazzino: ovvero il luogo dove si trova, di fatto, la stragrande maggioranza dei beni.

L’Espresso ha visitato alcuni dei depositi più importanti d’Italia. Partendo da Firenze. «Tutti i musei hanno più opere di quante possono mostrare», riflette Schmidt: «Ma il nostro compito è rendere il patrimonio visibile». Per questo le collezioni devono rimanere vive e continuare a cambiare, non essere monoliti immobili. «Bisogna abbandonare il concetto dei quadri di serie A e di serie B, di “tesori nei depositi” da rispolverare: se fossero veramente dei tesori andrebbero esposti! Altrimenti bisogna almeno favorire la rotazione degli allestimenti». Le riscoperte, così, possono essere continue. Una delle ultime apparizione che questa politica ha permesso è la “Caduta degli angeli ribelli” di Andrea Commodi. Raramente esibito in passato, è un concentrato di terrore, precisione e movimento, dipinto nella tensione della controriforma.

Gli archivi possono portare aria nuova non solo a singole opere. Ma anche a intere eredità misconosciute. «Un esempio sono le pittrici donne. Gli Uffizi hanno una collezione importante di pittrici - oltre 100 per prima del 1800 - che stiamo cercando di valorizzare», continua Schmidt. Il nuovo percorso sembra non volerle ghettizzare, per fortuna, in esibizioni ad hoc, ma inserirle a confronto con il proprio tempo. «Abbiamo messo un “Noli me tangere” di Lavinia Fontana di fianco a Federico Barocci, oppure Artemisia Gentileschi nella nuova sala dedicata ai caravaggeschi».

Gentileschi è l’esempio perfetto dell’intensità culturale che dorme spesso nascosta in magazzino: da quando è stata riscoperta dalla critica e dal pubblico le sue opere sono state liberate dai cartellini e riportate nelle stanze d’onore. La cultura cambia, e così dovrebbe cambiare il museo. Il bacino su cui contare è sterminato: gli Uffizi sono responsabili da soli di 6 mila quadri e 190 mila fra stampe e disegni. Nel conto ci sono anche 2.450 tele che si trovano in “deposito esterno”, affidate cioè a questure, uffici di magistrati, consolati o ambasciate, dove decorano i muri delle istituzioni secondo un’abitudine avviata all’unità d’Italia. «Quello è l’autoritratto di Annibale Carracci. Lì Tintoretto. Rosalba Carriera. Lì invece è un artista minore ma a noi non importa, ha bisogno di cure come un maestro».

Michele Murrone è custode del deposito dal 1993. «Ricordo quando ho accompagnato un artista di 90 anni venuto a rivedere il suo autoritratto. Qui il tempo si ferma». Ricorda soprattutto l’arrivo dopo l’attentato dei Georgofili. «La direttrice, Anna Maria Petrioli, ci chiese di dare il massimo per fronteggiare l’emergenza. Nessuno di noi ebbe dubbi». Anche il museo civico di Storia naturale di Milano è dovuto risorgere dopo una distruzione: i bombardamenti del 1943. «La collezione di conchiglie andò completamente distrutta», racconta Monica Leonardi, la “malacologa”, ovvero l’esperta di gusci e molluschi, del museo.

Leonardi, aiutata da Gloria, neo-laureata in Beni Culturali, sta lavorando a un nuovo censimento dell’intera collezione. Cassetto per cassetto, vetrina per vetrina, verificano lo stato di conservazione degli esemplari. Dietro un elegante cartellino scritto a mano - «è più veloce scrivere a china che passare da computer e stampante», dice, ed effettivamente - mostra una “Papuina pulcherrima”. «È un mollusco verde che è stato raccolto fino a rischiarne l’estinzione. Il marito di Maria Teresa d’Austria spese quattromila scellini d’oro per avere una di queste conchiglie, considerata all’epoca rarissima e di moda. Oggi un bel esemplare si può trovare su Internet a meno di 50 euro».

Come per la pittura, anche per le altre collezioni il valore attribuito a oggetti e stili muta con la società. «Ci sono conchiglie che costano anche 10 mila euro», ricorda Leonardi. In questo tempio civico alla scienza l’unico proposito della bulimia collezionistica è però lo studio e l’esposizione, non il possesso della bellezza. Fabrizio Rigato ha la scrivania ingombra di registri. Il suo ufficio è una stanza piena di armadi metallici invasa da un persistente odore dolciastro. Lui rassicura: è solo creosoto di faggio, un conservante naturale che gli permette di archiviare in salute gli insetti. Sotto la sua responsabilità ha tre milioni di esemplari. «Ma è facile fare numero con animali così piccoli», sorride, mentre compila una scheda di confronto su Antweb, portale mondiale dedicato alle formiche.

Dall’ufficio di Giorgio Teruzzi arrivano invece le note reggae dei Pitura Freska. «Mi aiutano a concentrarmi», dice il paleontologo. Teruzzi va in pensione fra due mesi ma ha un’attitudine da beaujolais. «Dopo quarant’anni di servizio, il rischio è sclerotizzarsi. Ma noi non possiamo permettercelo. Il nostro compito è comunicare la scienza al pubblico, dobbiamo rimanere aperti al nuovo». Teruzzi ha studiato qui i dinosauri di Besano, fossili unici al mondo provenienti da un’area sopra Varese. «Per il primo articolo su un Besanosauro di sei metri trascorremmo 16mila e 500 ore al microscopio», racconta. Ma ne valse la pena. Fa parte dell’identità di un museo, dice: non stancarsi mai di ricercare, fuori e dentro le proprie collezioni.

Giorgio Chiozzi è ornitologo e responsabile dei vertebrati. Con alcuni volontari sta portando avanti una ricerca sugli animali raccolti in Libia dal 1800 ad oggi. I suoi armadi non hanno più spazio nemmeno per un tordo da quanto sono stipati di uccelli impagliati. «Le istituzioni scientifiche come la nostra sono riconosciute quali “Nature treasure houses”», spiega: «Ovvero casseforti della natura, luoghi che permettano di conoscere la biodiversità presente e passata, e di tramandarla».

Oggetti e opere conservati nei musei pubblici sono considerati proprietà inalienabile dello Stato. Vanno protetti e non si possono vendere, come accade invece negli Stati Uniti. Se sono stati collezionati dall’istituzione, si ritiene infatti che il loro valore culturale, artistico o scientifico, sia riconosciuto. E se è solo passato di moda, potrà tornare in auge domani. All’impegno legale per la tutela non corrispondono però sempre i mezzi per realizzarla. Oltre ai fondi, cronicamente pochi, soprattutto per le piccole istituzioni che ne hanno più bisogno, anche lo spazio non è infinito. E questo è un problema che riguarda sia i piccoli che i grandi musei.

«È sempre un dispiacere per noi rifiutare una donazione», racconta Laura Ronzon, responsabile del patrimonio al museo delle Scienze e della Tecnologia “Leonardo da Vinci” di Milano: «Abbiamo un rapporto molto stretto con associazioni, comitati, nuclei per la salvaguardia di tradizioni artigianali locali o di invenzioni tecniche. Il nostro è un museo di comunità, che si nutre del dialogo con i cittadini. Ma non sempre possiamo accettare i lasciti». I curatori del museo ogni anno valutano circa 100 proposte di donazione, fra oggetti, documenti, libri.

Scelgono cosa accettare in base alla rilevanza storica, all’unicità, e tenendo in conto lo spazio limitato a disposizione in magazzino. Anche perché il rischio di eccedere, in un museo che conserva modelli di navi come esempi di aspirapolvere o computer a testimoniare le evoluzioni della tecnologie d’uso, è altissimo. Su 17.957 beni registrati, circa 2.700 sono in esposizione mentre più di 15mila sono conservati nei depositi o in comodato presso terzi. Nel 2019 il museo scientifico più grande d’Italia ha deciso allora di iniziare la trasformazione dei suoi stessi depositi in museo: cambiando gli armadi, per rendere visibili modelli e oggetti dietro il vetro, e rendendo visitabili le collezioni dormienti, come quella di moto - dalle prime, futuristiche, ai modelli iconici del design - e biciclette.

«Lo scopo del progetto è far emergere il ruolo del deposito come luogo di riflessione su quale eredità tramandare alle generazioni future», raccontano i curatori: «Un luogo di costruzione della memoria, riserva di storie da raccontare, progetto fondante dell’essere un museo in continua evoluzione». Era l’idea del fondatore, l’industriale milanese Guido Ucelli, ricordano: «Nel 1953 volle dotare l’Italia, come gli altri grandi paesi europei, di un museo che raccontasse il “divenire del mondo” a partire da uno sguardo di unità della cultura. Umanistica e tecnico-scientifica».

Che i depositi possano essere non solo una retrovia da cui pescare quando capita nuovi capolavori, ma anche un vero e proprio luogo di pensiero e cambiamento per l’istituzione, è l’idea che ha mosso Sylvain Bellenger, direttore del Museo e Real Bosco di Capodimonte, a Napoli, anche lui riconfermato a ottobre per altri quattro anni, sostenitore di due mostre legate ai magazzini e di giornate di studio aperte, a riguardo, lo scorso settembre.

La mostra “Depositi di Capodimonte. Storie ancora da scrivere”, curata da Maria Tamajo Contarini e Carmine Romano, ha permesso di esporre opere neglette dal gusto attuale ma di valore, attraversando temi come l’esotismo e la pittura di paesaggio, in una riflessione che metteva al centro il modo stesso con cui le collezioni napoletane si sono formate e man mano organizzate.

Dovendo compiacere il principe, il pubblico, o la scienza. Le due esposizioni sono state l’occasione per far incontrare al pubblico l’eredità conservata nei cinque magazzini, ora in corso di ristrutturazione, aprendo il confronto con gli studiosi su attribuzioni, analisi critiche e restauri. Sylvain Bellenger, che ha voluto questa ricognizione, la definisce «una vera antropologia della storia del museo». «Il deposito è il respiro e spesso il futuro del museo», hanno detto i curatori: «quando non è il suo inconscio».