«Dobbiamo svecchiare i linguaggi. Sfruttare le potenzialità del digitale. E mettere in dialogo il passato con la contemporaneità». Parla Massimo Osanna, Direttore generale dei Musei italiani

«La pratica che ho sul tavolo? Quella del Pnrr: è un’occasione unica di rinnovamento: non possiamo perderla». C’è una rivoluzione in corso in quei “luoghi sinistri” di cui Giorgio Manganelli testardamente diffidava. E Massimo Osanna, Direttore generale dei Musei italiani, ne è tra i promotori, cogliendo la sfida di trasformare in avamposti di futuro quei “lager di squisitezze”, come lo scrittore definiva le teche custodi di bellezza: in lezioni vive di eternità. E di contemporaneità.

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«Aprire i musei, renderli più accessibili è stato da subito il mio impegno», dice l’archeologo, mentre “L’istante e l’eternità”, alle Terme di Diocleziano di Roma, curata con Stéphane Verger, Maria Luisa Catoni e Demetrios Athanasoulis, ne esemplifica il pensiero. Una mostra che è un’indagine sul nostro rapporto con gli antichi e con valori attualissimi, spiega Osanna nel suo ufficio al Mibact, tra emozionanti gigantografie in bianco e nero di Kenro Izu, che richiamano il suo incarico precedente: direttore, per sette anni, del Parco archeologico di Pompei: «Ci sono 300 milioni di euro a disposizione, che fanno capo alla mia Direzione generale, per progetti di accessibilità: faremo in modo che buona parte dei musei italiani ripensino la loro narrazione».

Spazi piatti, sistemi tolemaici nell’universo sferico copernicano, con un linguaggio inadeguato se non ostile: un museo archeologico ha un serio problema di barriere.
«Quando parlo di accessibilità, mi riferisco non solo a barriere architettoniche -requisito minimo- ma di barriere sensoriali e cognitive: quelle che hanno spesso reso i nostri musei poco appetibili. Non si può pretendere che tutti abbiano una cultura classica: un museo deve essere in grado di parlare a fasce di età, provenienze, formazioni diverse. Ed essere non luoghi dove transiti svogliatamente, magari solo in gita scolastica, ma spazi d’incontro e di confronto, di emozione e conoscenza».

Come si attraggono pubblici nuovi?
«Grazie alle nuove tecnologie ci sono mille possibilità per rendere il linguaggio di un museo più adatto al pubblico, a cominciare dai giovani. Partiamo da un dato interessantissimo: dopo la pandemia abbiamo registrato un boom di presenze nella fascia tra i 20 e i 30 anni, prima decisamente meno rappresentata. Come ce lo spieghiamo? Credo grazie allo sforzo di digitalizzare contenuti. Durante le chiusure i musei, in modo magari estemporaneo e non omogeneo, hanno tutti fatto uno sforzo, mettendo online presentazioni e materiali interattivi. Questo evidentemente ha colto l’interesse di quelle fasce di giovani con il digitale al centro della loro acquisizione di conoscenza. E sono tornate nei musei. Non possiamo disperdere questa esperienza: dobbiamo fare in modo che i musei continuino a parlare quel loro linguaggio, non accoglierli più con didascalie in cui si legge “oinochoe trilobata”, per descrivere un vaso. Abbiamo indirizzato i progetti del Pnrr in questa direzione perché una visita al museo sia davvero inclusiva».

Se la pandemia ha segnato una linea di demarcazione, fondamentale è ora contare su figure professionali nuove.
«Assolutamente. Siamo fermi a un’impostazione ottocentesca. Ma nei musei non c’è bisogno solo di storici dell’arte. Servono filosofi, sociologi, scienziati, squadre con competenze diverse, capaci di dialogare. Non tutti devono avere conoscenze archeometriche o essere dei fisici, ma tutti devono capire quali possibilità la chimica o la fisica offrano nelle incerte interpretazioni».

Narrare un museo significa comunicare con efficacia. Come si può migliorare?
«Stiamo assistendo a un boom di musei sui social. Ma c’è molto da fare. Qualche anno fa ci fu un tentativo del Ministero di individuare figure di comunicatori, ma i requisiti non erano adeguati: se richiedi lauree e dottorati, quei posti finiscono per essere occupati da archeologi esclusi da altri ruoli, senza le capacità dei giovani. Dentro i musei ci vorrebbero millennial, immersi naturalmente negli ambienti digitali».

E quindi?
«I musei dovranno presto dotarsi di team con più professionalità. È un tema talmente importante che ho chiesto per questa Direzione generale un nuovo servizio di Comunicazione del patrimonio culturale».

La comunicazione, l’accessibilità. E se non bastassero a rendere attraente un museo?
«Credo che una delle strade più utili sia puntare sulle ricostruzioni. Un antesignano è stato Palazzo Valentini, a Roma, dove Piero Angela, Paco Lanciani e una équipe di tecnici hanno ricostruito, grazie a multimedialità e computer grafica, le domus romane. Se lasci visibili solo le rovine, muri ben conservati, un archeologo capisce, abituato com’è a ragionare sulle piante, ma una persona comune no. Le tecnologie sono più che mai fondamentali. Anni fa abbiamo organizzato una mostra su Pompei al Grand Palais di Parigi portando pochi oggetti, ma soprattutto ricostruendo ambienti virtuali e scenari dell’eruzione. Da un lato enormi specchi mostravano lo scavo, dall’altro le abitazioni erano ricreate grazie alla tecnologia. Senza arbitrarietà: è necessario un fitto dialogo tra archeologi e chi fa le ricostruzioni. Ma sono fondamentali per avvicinare all’antico».

E non cristallizzare gli oggetti in vetrina. Ci faccia qualche esempio, dalla mostra.
«Prendiamo il carro di Pompei, restaurato e qui esposto per la prima volta. L’intelaiatura di legno era andata persa, abbiamo lavorato sulle impronte degli elementi in bronzo nella cenere. Scavando, siamo riusciti, attraverso le stratigrafie in 3D, a ricostruire il carro nel suo complesso. La scelta era tra recuperare i pezzi, esporli, e poi mostrare con un disegno com’era il carro, o raggiungere il risultato finale nella sua imponenza. Questa è la linea curatoriale fondamentale, per me. Non si può essere solo studiosi protesi sulle pubblicazioni e non far diventare l’archeologia patrimonio di tutti».

Una strada per rendere accattivante l’antico è l’ibridazione col contemporaneo.
«Ne sono un fautore. Anni fa organizzai al Madre di Napoli con Andrea Viliani, attuale direttore del Museo delle Civiltà, una mostra chiamata Pompei@Madre Materia archeologica. Trasformammo il salone del museo in un triclinio, mescolando elementi classici con altri contemporanei. Fu così bello lavorarci, e tale fu il successo, che mi sembrò chiarissimo quanto il contemporaneo possa rendere l’antico più comprensibile. E viceversa».

È la lezione di Pompei, metafora del mondo. Passato che è presente e parla ancora.
«Pompei dimostra i legami fortissimi col passato. E chiarisce il presente. Nella mostra ci sono i calchi di un dominus, e probabilmente del suo schiavo, morti insieme. Grazie alla tecnica dello scavo che riempie il vuoto del corpo con il gesso, è stato ricomposto quell’attimo finale e i due sono ancora lì a parlarci. Pompei ha eternizzato l’istante della catastrofe. E ancora pensiamo all’eruzione del Vesuvio per riflettere su di noi. Per non parlare delle influenze che ha avuto su mode e gusto, arte e musica: da Mozart che da lì pare abbia tratto ispirazione per “Il flauto magico” ai Pink Floyd, con “Live at Pompeii” nel ‘72. Attimi di eternità che si confrontano coi desideri attuali».

È il “Tempo ritrovato”, per citare la Recherche. E un suo libro, dedicato alle ultime scoperte a Pompei. Cosa ci suggerisce “L’istante e l’eternità”?
«Viviamo in paesaggi urbani intrisi di antico. Se vado a Perugia, entro nel centro storico passando sotto l’arco Etrusco, a Rimini attraverso l’Arco di Augusto, a Roma il passato è ovunque, a Napoli, su via dei Tribunali, transito per vie nella stessa posizione delle strade della città greca... Prima di tutto abbiamo il dovere di preservare la memoria. Poi l’antico ti permette un confronto con valori trans-temporali di una società. La nostra mentalità dipende dal legame con gli antichi. E sulla lingua si struttura il pensiero. Però il confronto non può avvenire coi feticci: se viviamo nell’antico, quell’antico va considerato parte viva. A Pompei abbiamo riaperto l’anfiteatro perché dove prima c’erano gli spettacoli dei gladiatori oggi possano svolgersi spettacoli di musica. È l’antico che va rivissuto».

Del resto, le cose o sono relazioni. O sono solo oggetti, pietre.
«Esatto. Se non le consideri capaci di parlare ancora oggi, le rovine hanno un processo degenerativo inevitabile. La fruizione ti obbliga alla manutenzione».

C’è un ossessivo richiamo all’identità, oggi. E il patrimonio culturale ne è parte costitutiva. Ha senso parlare di identità culturale, sapendo che la cultura racconta incontri, negoziazioni, scambi?
«Le identità, come le culture, sono per definizione fluide: si mescolano e si trasformano di continuo. Quello che abbiamo cercato di esprimere nella mostra alle Terme di Diocleziano è che deriviamo da quei valori greci-romani: li abbiamo trasformati, riadattati, ma sono ancora il nostro mondo. Faccio un esempio ancora una volta pensando a Pompei. Solo a guardare alle iscrizioni, i valori che emergono solo al di là del tempo: amicizia, amore, sesso».

E espressioni del nostro stare insieme: la convivialità, l’ironia. Ma come la mettiamo con la cancel culture?
«La considero un’aberrazione. Partiamo dal presupposto che bisogna parlare al plurale: non c'è “la” cultura romana o “la” cultura greca. Il mondo romano andava da Cordova a Roma e fino a Tomi sul Mar Nero, dove Ovidio fu mandato in esilio da Augusto, precipitando indietro di 500 anni. Parliamo di mondi complessi e di un passato che non si può rinnegare perché non più funzionale ai valori odierni. Bisogna confrontarsi, prendere le distanze se la sensibilità è diversa. Non cancellare».

Non pensa che sia responsabilità dei musei favorire questo lavoro?
«Certo. Abbiamo questo compito per primi. Conoscendo ciò che il passato significa per la cultura occidentale».

Lei ha detto che i musei permanenti dovrebbero trasformarsi in temporanei.
«Le faccio un esempio: Sibari e il suo Parco archeologico. Era un museo triste, vuoto. L’ho ritrovato trasformato in un luogo di ricerca e pieno di giovani in visita e al lavoro, con post-it e didascalie scritte a mano, al posto dei cartelli, per far capire che il museo è in trasformazione: “Sibari in progress”. È un approccio che mi piace molto. L’archeologia è fatta di scoperte continue: i musei devono essere temporanei».

Consiglierebbe l’archeologia ai giovani?
«L’archeologia sta recuperando interesse. E io sono ottimista: ci sono anche più possibilità di lavoro. A breve partiranno come musei autonomi nuovi musei archeologici, da 44 diventeranno 60. Puntare sull’archeologia significa puntare sullo sviluppo».

E i bandi del Pnrr a che punto sono?
«Stiamo rispettando le tappe, entro il 30 giugno saranno avviati tutti i lavori».