Sono oltre 7mila società: si occupano di energia elettrica, raccolta di rifiuti, trasporto locale. In palio migliaia di poltrone nei consigli d'amministrazione sempre più appannaggio dei partiti. Anche quando le aziende si quotano in borsa. Come dimostrano i casi della toscana Estra e della veneta Ascopiave

Uno strano animale s’avanza in Borsa. Si chiama Estra, un’azienda che vende gas ed elettricità a 700 mila clienti nell’Italia centrale, da Siena a Grosseto fino ad Ascoli Piceno. Gli affari vanno alla grande: nel 2016 i ricavi hanno superato per la prima volta il miliardo di euro e il bilancio chiude in utile per 15 milioni. La sorpresa però non arriva dai conti. Gli analisti finanziari che hanno cominciato a studiare la società con base a Prato, pronta a sbarcare sui mercati forse già entro la fine dell’anno, si sono accorti che la gestione del gruppo è affidata a una coppia di amministratori che non ha eguali sul listino di Piazza degli Affari. Politici più che manager, questo almeno è quanto racconta il loro curriculum.

Il presidente di Estra è Francesco Macrì, che fino a un anno fa sedeva in consiglio comunale ad Arezzo come capogruppo di Fratelli d’Italia, dopo una ventennale carriera, e diversi incarichi pubblici, in varie formazioni del centrodestra: da Alleanza nazionale al Pdl e di qui ai finiani di Futuro e Libertà. Da Siena invece arriva l’amministratore delegato Alessandro Piazzi, un professionista delle poltrone targate Pd che ha finito per inciampare nel disastro Monte dei Paschi. Negli anni in cui la banca senese accumulava le perdite miliardarie che ne hanno quasi provocato il dissesto (evitato grazie all’intervento dello Stato), Piazzi sedeva nell’organo di gestione della fondazione che controlla il Monte. E per questo motivo è finito nella lista degli ex amministratori contro i quali è stata annunciata un’azione di responsabilità in Tribunale. La storia di Macrì e Piazzi illustra alla perfezione il paradosso di quelle aziende che un tempo venivano chiamate municipalizzate. Società per azioni a controllo pubblico in cui le nomine di vertice sono quindi decise e benedette dalla politica.

È il caso di Estra, controllata da una novantina di comuni delle province di Arezzo, Prato e Siena. Adesso però la società toscana fa rotta verso la Borsa e dovrà render conto a migliaia di azionisti, compresi i grandi investitori internazionali. E questi ultimi potrebbero far fatica ad apprezzare un’azienda gestita da manager designati sulla base della fedeltà a un partito, con un consiglio di amministrazione che si regge sugli accordi raggiunti all’interno di una giunta comunale. Ad Arezzo, per dire, raccontano che l’ascesa di Macrì alla presidenza di Estra sia il frutto di un compromesso tra i notabili del centrodestra cittadino. E che al tavolo della trattativa il partito di Giorgia Meloni abbia fatto pesare un pacchetto di centinaia di voti che si sono rivelati decisivi per l’inattesa sconfitta del Pd locale nelle elezioni amministrative del 2015.

E così, nel gran puzzle degli incarichi, alla fine il nome di Macrì si è incastrato nella casella di Estra. Lo stesso Macrì che nei mesi scorsi ha guidato le proteste dei risparmiatori per il crollo di Banca Etruria, con sede proprio ad Arezzo, e del Monte dei Paschi. Ebbene, adesso l’ex consigliere comunale aretino, nel frattempo salito alla presidenza di Estra, si trova costretto a collaborare con un amministratore delegato come Piazzi, chiamato in causa per i guai dell’istituto senese.

IL BOOM IN BORSA DELLE MUNICIPALIZZATE


Sono i paradossi delle aziende a capitale pubblico. Aziende in cui non sempre la logica della buona gestione ha la meglio sui compromessi al ribasso della politica. Comuni, province e regioni partecipano al capitale di un numero sterminato di società o enti. Nel 2014 la Corte dei conti ne ha censite 7.181. Più di recente l’ufficio studi di Mediobanca si è concentrato su un campione di 87 imprese, quelle con ricavi per almeno 50 milioni annui. La ricerca ha calcolato che queste società, quelle di maggiori dimensioni nel gigantesco esercito delle aziende a capitale pubblico, valgono qualcosa come 1.831 incarichi. A volte sono aziende di grandi dimensioni. Si occupano della distribuzione di gas, energia elettrica o acqua, della raccolta dei rifiuti o di trasporto locale, ma non mancano neppure le partecipazioni in aeroporti o autostrade.

Negli ultimi anni gli enti locali hanno cercato di mettere ordine tra le loro partecipate. Qualcosa è stato venduto, alcune società sono state chiuse. Secondo i calcoli dell’ufficio studi di Mediobanca, il numero degli amministratori designati da comuni, province e regioni è così diminuito del 41 per cento tra il 2011 e il 2015. La giostra delle poltrone, però, mobilita ancora risorse importanti: il totale dei compensi riconosciuti per questi incarichi, che pure si è ridotto del 43 per cento nell’arco degli ultimi cinque anni, tocca comunque i 30,7 milioni.

Il giro d’affari complessivo delle imprese considerate nello studio di Mediobanca supera i 33 miliardi di euro, con quasi 150 mila dipendenti. A giudicare dai risultati, sono le aziende energetiche la vera macchina da soldi delle amministrazioni pubbliche. Tra il 2012 e il 2016 le società che vendono metano o elettricità, come per esempio A2A, che dipende dai comuni di Milano e di Brescia, oppure la romana Acea, hanno distribuito ai rispettivi soci di controllo un totale  di 2,3 miliardi circa sotto forma di dividendi.

Ben diversa la situazione delle società  che gestiscono gli autobus cittadini o extraurbani e le metropolitane. Le cedole incassate dagli enti azionisti nell’arco di cinque anni non  superano i 49 milioni. Il caso di cattiva gestione più noto è quello della romana Atac, che il primo settembre ha scelto di imboccare la strada del concordato preventivo nel tentativo di evitare la bancarotta per effetto di 1,3 miliardi di debiti accumulati negli anni. Il settore del trasporto pubblico locale viaggia in perdita un po’ ovunque in Italia. Le cifre del disastro sono sintetizzate da Mediobanca. Secondo la ricerca, l’onere che ha gravato sulle casse pubbliche per tenere a galla queste aziende supera i 16,8 miliardi tra il 2011 e il 2015. Poiché, in media, i ricavi dalla vendita dei biglietti coprono solo il 36,8 per cento dei costi, la gran parte di questi contributi, circa 14,8 miliardi, va sotto la voce “integrazione tariffaria”.

Non  è solo questione di utili e perdite. Negli ultimi anni alcune grandi aziende  a controllo comunale hanno viaggiato a gran velocità anche sul listino di Borsa. Iren, l’azienda multiservizi che ha come azionisti principali i comuni di Torino, Genova e Reggio Emilia, ha più che triplicato le sue quotazioni tra il 2011 e agosto 2017. Stesso discorso per Acsm-Agam, nata dall’unione delle aziende municipali di Como e di Monza. I mercati hanno apprezzato i bilanci in utile e anche il flusso stabile di dividendi che nel 2017 ha garantito rendimenti annui compresi tra il 3 e il 5 per cento. Sono numeri di tutto rispetto, se confrontati ai tassi offerti di questi tempi da obbligazioni e titoli di Stato, che spesso sfiorano lo zero.

Gli investitori applaudono, quindi. E anche i piccoli risparmiatori cavalcano l’onda al rialzo delle ex municipalizzate, vecchi feudi della politica che ora giurano fedeltà alle regole del mercato. A volte però i buoni propositi restano tali e la gestione delle aziende comunali, anche quelle quotate in Borsa, torna a piegarsi alle ragioni della politica. E così, come abbiamo visto, a pilotare la toscana Estra nel suo viaggio verso il listino azionario, sarà una coppia di amministratori con una storia personale legata a doppio filo ai partiti.

Un caso unico? Pare proprio di no. Dalle parti di Treviso la guerra per le poltrone nel gruppo Ascopiave, quotato in Borsa, è finita dritta in tribunale. È uno scontro tutto interno alla Lega, che di fatto ha l’ultima parola nella scelta dei vertici della società e delle principali controllate. Tanto potere si spiega con i numeri della politica locale. Il partito di Matteo Salvini è di gran lunga il più forte nella novantina di comuni che, riuniti nella holding Asco, possiedono la quota di controllo di Ascopiave.




Nelle scorse settimane il leghista Fulvio Zugno, già assessore al bilancio a Treviso, è andato in Procura per presentare un esposto contro la gestione recente della società quotata in Borsa. Un’iniziativa sorprendente, soprattutto se si pensa che fino a qualche mese fa lo stesso Zugno sedeva sulla poltrona di presidente di Ascopiave, un gruppo che vale quasi 500 milioni di ricavi all’anno.

Il ribaltone risale ad aprile, quando al vertice della società, designato dalla holding pubblica, si è insediato Nicola Cecconato, descritto dalle cronache locali come un grande amico di Luca Zaia, presidente della regione Veneto, nonché dominus locale della Lega. Poco prima di perdere il posto, il pericolante Zugno si era però autonominato presidente di Ascotrade, la controllata che gestisce le vendite di gas ed energia elettrica. Una mossa disperata, visto che sono bastati un paio di mesi perché Cecconato, nel frattempo approdato al vertice della controllante Ascopiave, riuscisse a mettere un’altra volta alla porta il consigliere ribelle.

Zugno non si è dato per vinto e ha pensato bene di rivolgersi alla magistratura per far valere le sue ragioni. Tra ricorsi e controdenunce, lo scontro in tribunale sembra destinato a durare ancora a lungo. Nel frattempo, al vertice di Ascotrade è tornato Stefano Busolin, già in carica per otto anni dal 2009. Busolin, titolo di studio licenza media, ha guidato la lista Zaia alle elezioni regionali della primavera 2015.

Dimitri Coin, un altro fedelissimo del presidente regionale, è invece stato riconfermato nel consiglio di Ascopiave. Coin, che nel suo curriculum ufficiale  si descrive come «imprenditore nel settore agro-vivaistico», non si trova lì per caso: di recente è stato riconfermato nell’incarico di segretario provinciale della Lega Nord di Treviso.  Ovvero il partito che di fatto è l’azionista di controllo del gruppo quotato in Borsa. Con buona pace della separazione tra politica e affari.