Le borse in forte ribasso cancellano gli eccessi speculativi degli ultimi anni. Chi lascia i soldi in banca si condanna a una perdita sicura, mentre tornano convenienti alcuni titoli di stato. Ecco come orientarsi

Tassi d’interesse a zero, liquidità abbondante, mutui convenienti, borse in rialzo: eccole, sono le illusioni perdute dei profeti della crescita infinita. Grandi investitori, analisti autorevoli, perfino i banchieri centrali sulle due sponde dell’Atlantico per mesi ci hanno raccontato che dopo la parentesi tragica della pandemia era alle porte una nuova età dell’oro della finanza. Un ritorno a Goldilocks, che nel gergo degli economisti sarebbe la terra promessa su cui non tramonta mai il sole dei profitti per tutti.

 

L’impennata dell’inflazione, in Italia mai così alta negli ultimi trent’anni, racconta di un mondo molto diverso rispetto alle attese diffuse anche soltanto sei mesi fa. Ormai è chiaro: non si torna più indietro. Non si torna agli anni prima del Covid, quando l’obiettivo principale della politica monetaria, in Europa come negli Stati Uniti, era quello di riscaldare l’economia, di rilanciare una domanda insufficiente a sostenere il Pil.

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È cominciata allora, tra il 2013 e il 2014, l’era del denaro facile. Una stagione eccezionalmente lunga e anomala, segnata dall’aumento senza precedenti della liquidità, capitali per migliaia di miliardi di euro generosamente pompati nel sistema dalla Bce e dalla Fed statunitense. Quest’ultima aveva anticipato la svolta, portando i tassi a zero già alla fine del 2008. Si spiega anche così, con l’enorme quantità di moneta in circolazione, l’eccezionale rialzo delle Borse che ha superato senza soverchi problemi anche la crisi globale provocata dal virus. Ha frenato per prima Wall Street, in crescita addirittura dal 2009, con il Nasdaq che ha invertito la rotta già a partire dalle ultime settimane del 2021, perdendo oltre il 30 per cento dai massimi dell’autunno scorso.

 

In Europa invece il ribasso si è fatto più pesante subito dopo lo scoppio della guerra in Ucraina, quando in tutto il mondo principali centri di ricerca hanno corretto in senso molto più negativo le previsioni sull’andamento dell’economia, senza neppure escludere che entro la fine dell’anno il Vecchio Continente scivoli verso la recessione. Il quadro complessivo è ancora incerto. Molto dipende dalla durata del conflitto scatenato da Mosca e anche dall’evoluzione della pandemia in Cina, dove i lockdown di queste ultime settimane hanno rallentato produzione industriale e consumi.

 

D’altra parte, però, ci sono pochi dubbi che sul fronte finanziario gli investitori si troveranno ad affrontare uno scenario completamente diverso rispetto a quello degli anni scorsi. «Abbiamo sperimentato a lungo una situazione del tutto anomala, immersi in una bolla finanziaria in cui prezzi e quotazioni fluttuavano in un universo parallelo, sganciati dai consueti parametri di valutazione», spiega l’economista Marco Onado, docente senior dell’Università Bocconi. «Ora si apre una stagione nuova - continua Onado - resta da capire quale sarà l’entità della correzione al ribasso degli indici di Borsa». Nel frattempo, in Europa è probabile che prosegua la fase di forte volatilità in corso già da alcune settimane anche a Milano, con sedute in forte ribasso seguite da parziali recuperi. A Wall Street, invece, il crollo dei titoli tecnologici, compresi alcuni pesi massimi come Netflix (meno 70 per cento dall’inizio dell’anno) e Facebook, ora Meta Platforms, (meno 40 per cento) segnala che il mercato ha già cominciato a sgombrare il campo dagli degli eccessi più clamorosi.

 

Nel capitolo grandi pulizie rientra anche la picchiata delle criptovalute, un luna park della speculazione a buon mercato dove di recente si sono avventurati decine di migliaia di italiani a caccia di guadagni facili. Il crack del token Luna, il più fragoroso tra i crolli delle monete virtuali, ha spazzato via in pochi giorni qualcosa come 40 miliardi di dollari, un’onda d’urto che ha destabilizzato i mercati e ha rafforzato i sospetti dei tanti analisti da sempre dubbiosi sulla crescita esponenziale della galassia di bitcoin e simili.

 

Il solco più profondo tra il prima e il dopo, tra il tempo del denaro facile e il mondo nuovo dei tassi in rialzo, scorre però lontano dai fuochi d’artificio dei listini azionari. La fiammata dell’inflazione ha rivoluzionato il panorama dei mercati obbligazionari. Investitori grandi e piccoli hanno venduto titoli a reddito fisso per migliaia di miliardi, innescando un generale rialzo dei rendimenti. Questo gigantesco reset ha ovviamente coinvolto anche i Btp italiani, che nella scadenza a dieci anni, quella più frequentemente usata come parametro di riferimento, ai prezzi del 20 di maggio, quando questo articolo va in stampa, garantiscono ai compratori un tasso del 2,9 per cento contro l’1,2 per cento circa di inizio anno e lo 0,6 per cento dell’agosto scorso. Sono numeri vicini a quelli fatti segnare dal Btp decennale alla fine del 2018, quando l’Italia governata da Lega e Cinque Stelle finì nel mirino dei mercati. In quei giorni, però, l’inflazione era prossima allo zero e quindi il rendimento reale dei titoli di stato a dieci anni si aggirava intorno al 3 per cento. Ben diversa è la situazione di questi giorni. Ad aprile l’aumento dei prezzi su base annuale ha toccato il 6 per cento, come dire che il Btp decennale viaggia in territorio negativo rispetto all’indice del carovita. Chi compra ora (e può permettersi di non vendere fino a scadenza nel 2032) scommette quindi su una riduzione dell’inflazione nell’arco dei prossimi anni, riduzione per altro prevista da gran parte degli analisti.

 

Ben più sicure sono invece le prospettive di guadagno per chi nel recente passato ha puntato sul Btp Italia, indicizzato alla crescita dei prezzi. Le ultime cedole semestrali garantite da questa categoria di bond pubblici, per esempio quella con scadenza maggio 2023, hanno superato il 5,6 per cento lordo. Significa che al netto delle tasse il rendimento annuale, se si considera anche il pagamento dei sei mesi precedenti, arriva a sfiorare il 6,7 per cento. Un tasso superiore all’inflazione corrente che, come scritto sopra, si aggira intorno al 6 per cento. La cedola garantita da questo tipo di titoli è ovviamente destinata a diminuire se il carovita nei prossimi anni dovesse raffreddarsi. Comprare ora Btp Italia significa quindi puntare su un tasso d’inflazione ancora in forte aumento nei prossimi anni. 

 

Va detto, comunque, che il Tesoro in queste settimane non potrà non tener conto delle mutate condizioni di mercato. In altre parole, per evitare il flop dei collocamenti, il governo dovrà adeguare i rendimenti garantiti dai Btp a uno scenario finanziario rivoluzionato dall’impennata dei tassi. Questa manovra comporterà maggiori costi per lo Stato alla voce oneri per interessi, che però si trasformeranno in cedole più ricche per i risparmiatori. A maggio, per dire, il titolo a sette anni è stato offerto a un tasso, al netto delle tasse, del 2,04 per cento. Un anno fa, il Btp con durata identica era stato collocato con una cedola intorno allo 0,5 per cento. All’epoca, il rendimento era ampiamente inferiore all’inflazione, che a maggio 2021 era all’1,1 per cento. Lo stesso accade oggi, con cedola al 2 per cento e indice dei prezzi in crescita di oltre il 6 per cento. In entrambi i casi, quindi, l’investimento diventa conveniente solo se la fiammata inflazionistica si esaurirà. Non è granché come prospettiva, ma va detto che per la prima volta dopo molti anni i titoli di stato, grazie al rialzo generalizzato dei tassi, sono tornati a offrire occasioni concrete di guadagno per gli investitori.

 

Devono invece rassegnarsi a perdite anche rilevanti i risparmiatori che in queste settimane fossero costretti a vendere Btp acquistati negli anni scorsi a prezzi vicini alla pari, cioè a 100. Le quotazioni hanno infatti subito forti ribassi e le minusvalenze in conto capitale possono superare il 15 per cento. Navigano in rosso più che mai anche gli italiani, e sono milioni, che si ostinano a lasciare in banca nel conto corrente gran parte dei loro risparmi. Il tasso offerto sui depositi resta infatti, salvo poche eccezioni, prossimo allo zero. Senza variazioni ormai da un anno e più. Nel frattempo, però, l’inflazione è aumentata di oltre quattro punti percentuali nell’arco di soli sei mesi, erodendo di conseguenza il potere d’acquisto del gruzzolo parcheggiato in banca.

 

Ad aprile, ultimo dato disponibile, gli istituti di credito custodivano circa 1.860 miliardi sotto forma di depositi da clientela residente. Quasi 100 miliardi in più rispetto a dodici mesi prima. A quanto pare, insomma, nonostante le perdite, un’ampia fascia di risparmiatori fatica a trovare una soluzione d’investimento che lo convinca a mollare gli ormeggi dal classico approdo allo sportello bancario, fisico e virtuale che sia. Molti sono frenati dal timore di perdere ancora più soldi avventurandosi nel mercato azionario. Altri sono scoraggiati dai rendimenti comunque poco attraenti dei titoli di stato. Ci sarebbe una terza via: affidarsi al risparmio gestito, scegliendo una delle migliaia di soluzioni proposte da fondi, banche e assicurazioni, che infatti in questi ultimi mesi hanno lanciato nuove campagne commerciali puntando più che mai sui miliardi parcheggiati nei conti correnti. Anche per i gestori, però, adesso il gioco si è fatto più duro.

 

Fino a pochi mesi fa, con le Borse in rialzo da anni, era facile offrire ai clienti rendimenti in continua ascesa. Ora invece sui mercati il vento è cambiato. Di conseguenza per i gestori aumenta il rischio di deludere le attese. Perdendo soldi. E qualche volta anche la faccia.