Strutture con base off shore e sedi a Londra e Wall Street. Investono miliardi e comprano quote di grandi aziende quotate in Borsa per cambiarne la gestione. Da Google ai colossi petroliferi. E in Italia ora hanno messo nel mirino la partecipata dell’energia

Sono le navi corsare della finanza. Vanno all’attacco di aziende grandi e piccole, a volte perfino di Stati sovrani. Muovono miliardi tra New York, l’Europa e le piazze asiatiche. Qualche volta scendono in campo per una buona causa, più spesso, semplicemente, per far soldi. Eccoli, i fondi attivisti, un’etichetta che accomuna anonime sigle con base offshore assieme a pachidermi con centinaia di dipendenti e uffici sparsi in mezzo mondo.

 

Negli anni Ottanta del secolo scorso, andava di moda il raider solitario, il Gordon Gekko del film Wall Street, che comprava le aziende per spolparle e rivenderle a pezzi. Quarant’anni dopo, l’evoluzione della specie ha prodotto creature con nomi spesso esotici che si intestano blitz finanziari così come battaglie lunghe anche anni.

 

Quasi mai l’incursione in Borsa serve a prendere il controllo della società preda. Più spesso, l’obiettivo finale è quello di arrivare a trattare da una posizione di forza con i soci di comando per convincerli a cambiare strategia. Il denaro non è un problema: arriva da anonimi investitori sparsi per il mondo e a metterci la faccia sono professionisti del trading che tirano le fila di complicate architetture societarie.

 

Campione assoluto della categoria è l’inglese Chris Hohn, patron del fondo Tci, sigla che sta per The Children Investment fund. In vent’anni di carriera, Hohn ha accumulato un patrimonio colossale (intorno agli 8 miliardi di dollari) speculando in Borsa, ma ha fatto guadagnare molto di più ai suoi clienti, pur con alti e bassi nel corso del tempo. Il 2022, per esempio, è stato un anno di magra per Tci, che comunque, nel novembre scorso, è andato all’attacco di un colosso come Alphabet, la holding di Google. Hohn contestava, tra l’altro, i costi troppo alti del personale. Tempo poche settimane e il motore di ricerca ha annunciato il taglio di 12 mila dipendenti.

 

Nati e cresciuti ai tempi della finanza globale, i fondi attivisti non conoscono confini, ma in Italia si sono sempre fatti vedere poco, rispettando una regola non scritta della finanza nostrana, dove è fortemente sconsigliato disturbare il manovratore.

 

Per questo ha fatto scalpore nei giorni scorsi l’attacco all’Enel, la più grande società italiana per capitalizzazione di Borsa (59 miliardi) e perdipiù controllata da un azionista pubblico, il Ministero dell’Economia. «È ora di finirla con questo modo di fare le nomine, gli azionisti devono poter scegliere», è sbottato in un’intervista al Financial Times il finanziere lituano Zach Mecelis, a capo di Covalis, un fondo con base a Londra a cui fa capo il 3 per cento circa del capitale Enel. Al centro della disputa c’è il rinnovo delle cariche di vertice della multinazionale.

 

Il governo punta su Paolo Scaroni come presidente al posto dell’uscente Michele Crisostomo, mentre Flavio Cattaneo dovrebbe sostituire Francesco Starace, al comando da nove anni, sulla poltrona di amministratore delegato.

 

Mecelis se l’è presa con la logica politica che guida le scelte di Roma e ha presentato una sua lista di candidati per il consiglio di amministrazione di Enel. Curiosamente, però, questo elenco non comprende un nome alternativo a Cattaneo, designato dalla maggioranza di centrodestra come prossimo numero uno operativo. Per la presidenza, il fondo Covalis indica al posto di Scaroni il finanziere Marco Mazzucchelli, un manager sessantenne dal lungo curriculum in banche italiane e straniere. In un’intervista del 2018, Mazzucchelli rivendicava il merito di «non avere mai cercato dialoghi con i partiti e con la massoneria».

 

L’assemblea dei soci di Enel è convocata per il 10 maggio e la partita è ancora aperta. Venerdì 28 aprile Covalis ha ricevuto un clamoroso assist grazie all’intervento di Glass Lewis, un ente cosiddetto proxy advisor che si occupa di fornire indicazioni di voto agli investitori istituzionali a cui fa capo la netta maggioranza del capitale di Enel. Glass Lewis consiglia di votare per Mazzucchelli presidente e non per Scaroni perché il candidato del fondo attivista potrebbe «meglio salvaguardare la supervisione indipendente a livello di consiglio di amministrazione e sarebbe un miglior contrappeso alla presenza del ceo».

 

Al momento, comunque, il favorito per la presidenza resta Scaroni. L’azionista pubblico, infatti, controlla il 23,6 per cento del capitale del colosso nazionale dell’energia. Covalis invece parte da una quota del 3 per cento e per ribaltare il pronostico dovrà cercare di guadagnare consensi tra gli investitori istituzionali. Intanto però, la sortita di Covalis su Enel, oltre a mettere in allarme il governo, è comunque riuscita a smuovere le acque stagnanti della finanza italiana e potrebbe incoraggiare future incursioni. I fondi attivisti si sono moltiplicati negli anni dei tassi d’interesse a zero. Tra il 2014 e l’estate del 2022, era facile fare il pieno di liquidità a buon mercato per comprar titoli in Borsa, ma le grandi manovre sono proseguite anche in questi mesi, dopo la stretta monetaria imposta dalle banche centrali.

 

A gennaio, per dire, il magnate indiano Gautam Adani (patrimonio stimato oltre 100 miliardi di euro) si è trovato spalle al muro dopo l’attacco dell’hedge fund americano Hindenburg Research, che lo accusava di malversazioni varie. La vertenza legale andrà per le lunghe, ma intanto le quotazioni dei titoli del gruppo Adani sono crollate e il fondo ha già guadagnato miliardi grazie alle vendite allo scoperto. Neppure il tempo di chiudere il capitolo indiano e Nathan Anderson, il finanziere a capo di Hindenburg Research, si è già lanciato in una nuova avventura. La preda, questa volta, è il gruppo Usa di pagamenti digitali Block, controllato da Jack Dorsey, l’inventore di Twitter.

 

Il copione è simile a quello già andato in scena con Adani. A fine marzo, una serie di accuse su presunte malversazioni ha provocato il crollo dei titoli venduti allo scoperto dagli attaccanti. Hindenburg insiste. Block risponde. La vicenda potrebbe trascinarsi ancora a lungo tra tribunali e terremoti in Borsa. Si è invece chiuso con il voto dell’assemblea dei soci il confronto tra Bluebell capital e la famiglia Rupert, a cui fa capo Richemont il gigante del lusso con 19 miliardi di euro di ricavi annui che produce gioielli (marchio Cartier), orologi e accessori moda.

 

Bleubell è un fondo inglese fondato da Giuseppe Bivona e Marco Taricco, due finanzieri italiani dalla lunga esperienza internazionale, che da anni fanno notizia dalle nostre parti per via delle loro denunce contro i vecchi manager di vertice del Monte dei Paschi di Siena, Alessandro Profumo e Fabrizio Viola. La coppia di banchieri ex Mps è già stata condannata in primo grado nel processo penale, ma le azioni di responsabilità, con richieste miliardarie di danni, sono sempre state respinte dall’assemblea della banca, con il voto decisivo del ministero dell’Economia, l’azionista di maggioranza. Allo stesso modo si è conclusa, nel settembre scorso, anche la sortita di Bluebell su Richemont. I soci hanno rispedito al mittente la richiesta del fondo attivista che avrebbe voluto la nomina in consiglio di amministrazione dell’ex numero uno di Bulgari, Francesco Trapani. Niente da fare, la poltrona è andata a Wendy Luhabe, manager gradita ai Rupert.

 

Potrebbe decidersi in questi giorni, invece, un’altra sfida lanciata dalla coppia Bivona-Taricco, che fin dal 2021 stanno cercando di convincere il board di Glencore, gigante mondiale del trading di materie prime, a cedere le attività nel settore del carbone. Richiesta respinta, anche perché in tempi di crisi del gas naturale, la domanda di coke è tornata a tirare alla grande. Poche settimane fa, Glencore ha fatto un’offerta per rilevare il gruppo canadese Teck, forte nel rame e nello zinco, proponendo tra l’altro di unire le forze nel settore carbone. Bleubell si oppone anche a questa soluzione. In prospettiva, argomentano i due finanzieri italiani, gli investimenti in una fonte così inquinante sono destinati a rendere sempre di meno, visto che il mondo intero punterà su tecnologie pulite. Nessuno scrupolo ambientale, quindi, anche se di recente si sono moltiplicati i sostenitori del cosiddetto “conscious capitalism”, un capitalismo consapevole che ha per bussola l’etica e si fa carico della sostenibilità ambientale e sociale delle proprie attività.

 

Un esempio su tutti. Un gruppo di investitori con centinaia di miliardi di euro in gestione si è dichiarato pronto a sostenere le iniziative dell’associazione non profit Follow This per limitare l’impatto ambientale delle multinazionali del petrolio. Proposte di questo tipo in passato hanno raccolto l’appoggio anche del 20 per cento del capitale nelle assemblee dei soci di colossi come Bp, Shell ed Exxon. Un colpo pesante all’immagine dei big dell’oro nero, costretti a render conto pubblicamente delle loro scelte. Sarà un caso, o forse no, ma il più importante finanziatore di Extinction Rebellion, il gruppo di ambientalisti già protagonisti di azioni clamorose, è Chris Hohn. Proprio lui, il miliardario del fondo attivista Tci.