Per i governi conta solo che non si parli del conflitto

Libia, rieccoci. La volta scorsa con ?gli aerei, stavolta con le navi. Ma non ?è guerra, no; chiamiamolo piuttosto turismo militare. Un genere di viaggi che l’Italia organizza ormai da molto tempo, inviando le sue truppe pacifiche e paciose in giro per il mondo. Dove? In Libano e in Somalia negli anni Ottanta, in Iraq nel 1991 e nel 2003, di nuovo in Libano dal 2006, in Kosovo nel 1999, in Afghanistan dal 2001, o per l’appunto in Libia nel 2011, ?sulle tracce di Gheddafi.

In quel caso cominciammo offrendo le basi militari agli alleati, poi spedendo in Libia gli istruttori, poi facendo decollare i Tornado, ma sempre in missione umanitaria, sempre con un’intenzione amichevole, gentile. Risultato: 1900 raid e 456 bombardamenti in 7 mesi. Come scoprimmo l’anno dopo, quando il generale Giuseppe Bernardis – capo di stato maggiore dell’Aeronautica militare – rivelò agli italiani le verità occultate dal governo Berlusconi. Perché la regola è una sola, perennemente osservata dai governi di destra e di sinistra: fai la guerra, però censura la notizia della guerra. E guai a pronunziare la parola, non sia mai, qualcuno potrebbe trarne scandalo.

Da qui un dilemma etico, prima che giuridico: è legittima l’ipocrisia di Stato? C’è un valore, un interesse superiore che giustifica le menzogne dei politici? «Non si raccontano mai tante bugie come prima delle elezioni, durante una guerra e dopo la caccia», diceva Bismarck. Sarà per questo che siamo diventati diffidenti. Ci succede pure in quest’ultima occasione, benché all’apparenza si tratti d’un intervento di routine. Anzi: non è che la prosecuzione dell’operazione Mare sicuro (già finanziata per 83 milioni di euro), hanno dichiarato i nostri governanti. Con un ruolo di «sostegno tecnico-logistico» alle motovedette della marina libica, niente di più. E se ci attaccano? Risponderemo al fuoco, of course. E magari ci spingeremo in terraferma. Non sarà guerra, ma è arduo definirla pace.

Anche perché c’è un’altra guerra ?che stiamo combattendo da decenni, e senza risparmio di pallottole: la guerra al divieto della guerra. Il suo bersaglio è una norma costituzionale, l’articolo 11. Dice: «L’Italia ripudia la guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali». Che significa? Chiaro: che è ammessa la sola guerra difensiva, e che quest’ultima a sua volta si giustifica unicamente per resistere a un’aggressione esterna, consumata sul territorio dello Stato. Dunque niente truppe al di fuori dei nostri confini, niente operazioni militari all’estero. Come d’altronde c’era scritto nei primi commentari alla Costituzione, secondo la lettura unanime dei costituzionalisti.

Sennonché quell’interpretazione fu messa in crisi già nel 1949, con l’adesione dell’Italia al patto Nato. Ne scaturì difatti l’obbligo d’assistenza militare fra gli Stati contraenti, sul presupposto che ogni attacco armato contro uno di essi «sarà considerato quale attacco diretto contro tutte le parti» (così l’articolo 5 del Trattato). Da allora in poi il tabù costituzionale della guerra ha finito per rovesciarsi nel suo opposto, attraverso il trucco semantico dell’«operazione di polizia internazionale» o con l’ossimoro della «guerra umanitaria». Conclusioni: qui ?e oggi, abbiamo 6400 militari italiani all’estero, con 31 missioni dislocate ?in 21 Paesi.

Magari sarà giusto così, per onorare i nostri impegni con i governi alleati, per salvaguardare il ruolo dell’Italia nel mondo. Però è ingiusto – di più: è incostituzionale – trattare l’articolo 11 come un fantasma normativo, come una regola sospesa. E non può certo bastare a lavarci la coscienza la legge quadro sulle missioni militari all’estero, confezionata l’anno scorso (n. 145 del 2016). Nessuna legge, infatti, ha il potere di correggere la Costituzione. Come ben sanno i tedeschi: anche la loro Carta costituzionale (articolo 26) vieta ogni guerra offensiva, tuttavia lì ?la prendono sul serio. Noi, invece, obbediamo da sempre a un principio supergiuridico, supercostituzionale. Quale? La vecchia massima cattolica: si fa, ma non si dice.