Avevano promesso trasparenza. Invece ?i signori della gestione privata continuano a governare 80 miliardi di euro senza controlli. E le regole per evitare investimenti sbagliati sono ferme da tre anni

Nei cassetti del ministero dell’Economia c’è un dossier definito da tempo, pronto per diventare operativo, ma bloccato da un letale scontro d’interessi. Riguarda le regole che dovrebbero impedire alle casse pensionistiche private di sprecare i quattrini versati dai lavoratori, bruciandoli in investimenti opachi o sconsiderati. Il regolamento era previsto da una legge del 2011, governo di Silvio Berlusconi, varata quando stavano emergendo le ingenti perdite accusate dalle casse di molti professionisti - medici, agenti di commercio, ingegneri, agricoltori e altri ancora - con la crisi finanziaria globale, e in particolare con il fallimento della regina dei titoli tossici, la banca americana Lehman Brothers.

Dopo un lungo periodo di gestazione, le nuove norme erano state messe nero su bianco nell’autunno 2014, con Matteo Renzi al governo e Pier Carlo Padoan al ministero dell’Economia, ed erano state sottoposte con una consultazione pubblica all’esame delle parti. Da allora non si è mosso più nulla. Il regolamento non è stato approvato; nessun obbligo è stato imposto alle casse; nessun sistema di vigilanza sui loro investimenti è diventato effettivo. Il risultato è uno di quei paradossi tipici delle istituzioni italiane. I fondi pensione integrativi, quelli dove finisce ad esempio il Tfr di molti lavoratori, sono sottoposti a un rigido sistema di controlli, addirittura con un’autorità di vigilanza ad hoc, la Covip. Le casse previdenziali no, nonostante gestiscano il grosso della pensione futura di due milioni di persone, commercialisti e notai, infermieri e medici, ingegneri e geometri, e così via.




Nel grafico il rendimento annuo del patrimonio immobiliare e degli altri investimenti delle principali casse previdenziali private italiane. Complessivamente gestiscono circa 80 miliardi di euro per conto di due milioni di lavoratori. I dati sono tratti dai bilanci 2016; non tutte le casse indicano il rendimento netto, mentre in alcuni casi non possiedono immobili. Nel regolamento per la trasparenza della gestione delle casse, predisposto dal governo nel 2014 e mai entrato in vigore, era previsto un limite del 30 per cento del patrimonio agli acquisti in mattoni. Non è comunque facile comprendere l’effettiva salute degli investimenti immobiliari: molte casse hanno comprato quote di fondi chiusi, il cui rendimento sarà calcolabile solo alla scadenza del fondo


I motivi per cui il regolamento è stato impallinato in dirittura d’arrivo sono molteplici. Ce n’è uno ufficiale: le casse previdenziali sono contrarie. Essendo istituzioni private, temono di veder compromessa «la loro autonomia nelle politiche d’investimento», come hanno avuto modo di dire durante la consultazione del 2014 e ripetuto in ogni altra occasione possibile. Anche lo Stato, però, ha valide ragioni. Le casse, anche se private, gestiscono denari che i contribuenti sono obbligati a versare. Il fatto che non vengano dilapidati è cruciale, perché gli stessi lavoratori che oggi pagano i contributi avranno diritto a ricevere in cambio la loro pensione dopo molti anni, se non decenni. In più, quando una cassa va a rotoli, il costo ricade sulla collettività, cioè lo Stato, com’è accaduto qualche anno fa con l’Inpdai dei dirigenti d’azienda, confluita nell’Inps.

Oltre a queste ragioni di principio, ad alimentare lo scontro hanno contribuito anche altri fattori. Il governo, o meglio, i governi hanno le loro colpe, perché hanno dato l’impressione di ritardare l’adozione di regole più stringenti su trasparenza, conflitti d’interessi e qualità degli investimenti in cambio di un tornaconto politico. Da sempre gli 80 miliardi di euro depositati nelle casse fanno gola ed è forte la tentazione di metterci le mani sopra per poterli dirottare su scopi politicamente sensibili. L’ultimo esempio è uno degli innumerevoli tentativi che sono stati fatti per salvare le banche in crisi. L’anno scorso l’associazione delle casse, che si chiama Adepp ed è presieduta da Alberto Oliveti, aveva condotto una trattativa per convogliare 500 milioni di euro nel fondo Atlante II, che avrebbe dovuto contribuire al salvataggio del Monte dei Paschi di Siena. L’intervento era certamente ben visto dal governo Renzi, che faticava nel trovare una soluzione alla crisi dell’istituto toscano. Il piano di Oliveti non andò in porto, anche perché diverse casse decisero di non aderire, rispondendo picche alla chiamata della politica.

Anche le casse, però, hanno delle responsabilità. Dietro alla resistenza contro il regolamento insabbiato c’è la determinazione dei vertici di alcune di loro a non fare trasparenza sul modo in cui sono gestiti gli investimenti, una questione delicata che nel tempo è stata oggetto di diverse indagini della magistratura. Questo lato oscuro è descritto dalla relazione che la Covip, la commissione di vigilanza sui fondi pensione guidata da Mario Padula, si è adoperata a scrivere, spulciando i bilanci delle casse previdenziali. Dice l’autorità che i documenti relativi agli investimenti e alle scelte fatte dalle casse sono caratterizzati da «scarsa chiarezza, incongruenze e duplicazione dei contenuti» e che alcune di loro «non hanno ancora adottato una propria disciplina» su come investire i quattrini.

Ecco perché, al governo, l’impresa di varare il nuovo regolamento non viene abbandonata, pur con mille cautele: «Una norma di questo tipo ha senso se è condivisa dai soggetti coinvolti. Negli ultimi mesi si è fatto un buon lavoro per trovare l’intesa necessaria a tirar fuori il decreto dal cassetto», dice all’Espresso Pier Paolo Beretta, sottosegretario all’Economia, secondo il quale «il decreto ha senso solo se siamo d’accordo tra la conduzione privatistica e la vocazione pubblica delle casse». Che è uno dei temi più spinosi: il governo vorrebbe contabilizzare gli 80 miliardi di patrimonio delle casse nel bilancio pubblico; ma queste non ci stanno, perché se così fosse rischierebbero, tra l’altro, d’incorrere nella spending review. Baretta mostra fiducia sulla possibilità di un accordo in extremis, anche negli ultimissimi giorni di vita del governo in carica: «In questi giorni abbiamo avviato contatti con i rappresentanti delle casse e contiamo di concludere l’iter di approvazione della norma entro la fine della legislatura, anche a Camere sciolte».

Ma quali sono, nella vicenda, i nervi scoperti delle casse? Gli aspetti degni di nota sono diversi. Con le nuove regole, avrebbero avuto maggiori vincoli nell’assegnazione dei mandati di gestione, che avrebbero dovuto essere affidati garantendo «trasparenza e competitività», limitando la discrezionalità di presidenti, consigli di amministrazione e direttori generali, ai quali ancora oggi non vengono richieste particolari competenze finanziarie. Se si scorre l’elenco dei gestori ai quali, oggi, gli enti si affidano, balza agli occhi il successo ottenuto da società di piccole dimensioni, a volte fondate in anni relativamente recenti. Nomi come Optimum Asset Management, Eos Investment Management, Valeur, dicono poco a milioni di lavoratori, ma gestiscono quote rilevanti dei loro risparmi previdenziali. E hanno, spesso, in comune la caratteristica di essere state costituite da soggetti italiani che, per operare, hanno scelto di aprire uffici in Lussemburgo, a Londra o in Svizzera. Non mancano, però, anche nomi della prima repubblica, tornati improvvisamente sulla cresta dell’onda, come mostra il caso di Giancarlo Elia Valori e della sua Centrale Finanziaria, che di recente ha acquistato la società di gestione Serenissima Sgr.

Un altro argomento bollente è quello del mattone, uno degli investimenti più tradizionali. La legge disegnata nel 2011 rappresentava un vero e proprio terremoto per le abitudini delle casse pensionistiche. Prevedeva infatti un limite del 20 per cento agli investimenti diretti in immobili, sul totale del patrimonio. Uffici pubblici, palazzi di abitazioni, edifici di importanza storica sono da sempre uno dei simboli del potere delle casse, ma la loro gestione è stata spesso oggetto di critiche, se non di inchieste giudiziarie, a causa di compravendite poco redditizie. Rientrare sotto il 20 per cento avrebbe voluto dire far piazza pulita di gran parte di questi investimenti, magari lasciando emergere le perdite dovute ai prezzi di carico troppo elevati con cui molti edifici sono iscritti a bilancio. Le casse hanno subito chiesto tempi lunghi per rientrare nei limiti, e sono poi riuscite a ottenere un innalzamento del tetto al 30 per cento. Nel frattempo, anche se il regolamento non è entrato in vigore, hanno iniziato a cedere parte del patrimonio.

Anche qui, però, la situazione è intricata. Lo fa intuire il caso dell’Inpgi: l’ente previdenziale dei giornalisti sta vivendo una fase difficile: ogni 100 euro che incassa in contributi, ne spende 127 in pensioni. Il bilancio 2016 è stato chiuso con un avanzo di 9,4 milioni grazie alla cessione di una parte del patrimonio immobiliare. Una vendita particolare, anche se di un genere diffusissimo tra gli enti: i palazzi sono stati ceduti al Fondo Amendola, le cui quote sono di proprietà dell’Inpgi stesso. Nel passaggio c’è stato un notevole effetto di bilancio: il valore degli immobili è passato da 221 a 303 milioni, permettendo alla cassa dei giornalisti di segnare a bilancio la plusvalenza che le ha permesso di non chiudere in rosso.

Molti fondi immobiliari sono spesso del tipo “chiuso”, che non prevede la quotazione in Borsa e rende difficile capire come questo genere di investimenti stia effettivamente andando. Un esempio viene dalla Cassa Forense, quella degli avvocati. A fine 2013 ha iniziato a girare i propri immobili - valutati 722 milioni - al Fondo Cicerone, gestito da Fabrica Immobiliare sgr, che fa capo al gruppo di Francesco Gaetano Caltagirone. Come sta andando l’attività del fondo? Non è dato saperlo. «Non essendo disponibile il rendiconto del fondo Cicerone a fine 2016 in via di approvazione da parte di Fabrica sgr non è possibile al momento fornire ulteriori dettagli contabili», spiega una nota del bilancio di Cassa Forense dello scorso anno.

Anche in questo quadro, c’è chi non rinuncia però al mattone. Nel 2016 Ofer Arbib, il gestore del fondo Ippocrate della cassa dei medici Enpam, ha acquistato metà del Principal Place di Londra, che ospiterà i dipendenti di Amazon. Costo dell’operazione 245,7 milioni di sterline, un investimento che, alla vigilia della Brexit e della conseguente svalutazione della sterlina, potrebbe rivelarsi un affare poco lungimirante. Qualche mese dopo, Amazon ha annunciato la nuova sede di Milano: anche qui in un immobile di Ippocrate. L’Enpam, dunque, ha ancora fame di immobili. Non contenta dello sbarco a Londra, proprio nelle scorse settimane ha comprato la sede di Banca Carige a Milano, investendo altri 107 milioni. Per la banca ligure, alle prese con un difficile aumento di capitale, è stata certamente una bella boccata d’ossigeno. Per le pensioni future dei medici, chissà.