Una deriva troppo spesso "attrattivista", concentrata sulla promozione e non sulla ricerca. Poco rispetto per i predecessori. E alcuni casi «imbarazzanti». L'ex direttore generale Ugo Soragni dà il suo quadro sulle gestioni autonome post riforma

L’autononia ai musei? «Era necessaria. Ed è utile. Ma in alcuni casi per ora abbiamo visto in azione solo marketing. E pochi contenuti». Ugo Soragni è stato il direttore generale dei musei nel momento chiave della riforma del ministro Franceschini. È entrato nella sala di comando romana a dicembre del 2014 e ne è uscito quest’estate per andare in pensione: «Torno a studiare», dice. In mezzo: pochissime interviste e molta burocrazia, necessaria a stabilire, dice, gli strumenti tecnici funzionali agli assetti rivoluzionati dei più grandi musei italiani.

Prima di tornare alle sue ricerche ha deciso di tracciare con L’Espresso il suo personale bilancio sui due anni di attività dei nuovi super-direttori, salutati con entusiasmo trasversale dall’opinione pubblica, seppur con alcuni incidenti, fra cui la sentenza del Tar del Lazio che ha messo in dubbio i presupposti della selezione internazionale, sentenza sospesa dal Consiglio di Stato fino al 26 ottobre, data dell’udienza pubblica. Soragni difende i principi della riforma, il bando internazionale, le prospettive avviate da esempi positivi, secondo lui, come l’attività agli Uffizi del tedesco Eike Schmidt (che ha già accettato un altro incarico al termine dei quattro anni previsti).

Ma critica invece la deriva “attrattivista”, concentrata sulla promozione, di altre direzioni. Arrivando a definire ad esempio James Bradburne, nuovo mister Brera, dirigente anglo-canadese elegante e poliglotta, osannato a Milano, «un egocentrico; una conduzione imbarazzante, la sua». Mentre sull’entusiasmo nazionale per i numeri dei visitatori ricorda, come altri in queste pagine, «che la cultura non è solo folla agli ingressi». Soragni solleva così un problema politico e culturale, più che strettamente tecnico, sugli obiettivi di questo nuovo corso.

«Era sicuramente indispensabile riconoscere l’autonomia ai principali musei italiani, svincolandoli dalla dipendenza dalle soprintendenze», dice Soragni: «Certo, abbiamo perso le competenze disciplinari che avevano i funzionari. Però abbiamo finalmente dei dirigenti che hanno poteri decisionali e di spesa; che possono dedicarsi ai musei a tempo pieno e che sono stati selezionati con un bando internazionale. Dobbiamo rallegrarcene. È la parte più azzeccata della riforma».

Ma?
«Non sempre le persone chiamate si sono dimostrate all’altezza».

In cosa è stata sbagliata la selezione del ministero?
«Penso che nel momento della scelta sia stato dato maggior rilievo alle capacità organizzative e promozionali dimostrate dei candidati, dando per scontato che fossero anche conoscitori della materia. In alcuni casi questo criterio si è rivelato un errore»

Però i risultati stanno arrivando, no? I principali musei stanno conoscendo un rinnovato successo di attenzione e di pubblico.
«Grazie alla riforma, i nuovi dirigenti hanno avuto a disposizione risorse senza precedenti. Gallerie e monumenti avevano bisogno di visibilità. E l’hanno ottenuta. Il problema nasce quando questa non è accompagnata dai contenuti. Si parla tanto, ma di cosa?»

Dell’aumento di visitatori e introiti, ad esempio. È un successo oggettivo...
«Ed è giusto esserne soddisfatti. Ma dobbiamo chiederci: quale crescita culturale segue a questo boom? Andare al museo può diventare di moda e non me ne lamento certo, anzi. Ma dovremmo recuperare anche l’obiettivo più ampio: dare spessore a queste presenze, proporre al pubblico un’idea, una scelta interpretativa. La missione del museo è educare e istruire».

Non sarebbe già molto se i musei riuscissero a custodire le proprie opere e ad allargarne al massimo la fruizione?
«Lasciando così la produzione di grandi mostre nelle mani di società che sfornano pacchetti privi di alcun contributo critico? Per me no. Ma al di là di questo principio, che può essere argomentato, quello che ritengo necessario è trovare almeno il giusto equilibrio fra promozione e novità scientifica».

E la riforma sta fallendo, in questo senso?
«Dipende. Ci sono realtà che stanno riuscendo a fare un lavoro eccellente in termini sia di tutela che di ricerca, che di valorizzazione. Penso all’attività di Eike Schmidt agli Uffizi, ad esempio. Oppure fra gli istituti più piccoli all’Archeologico di Taranto con Eva Degl’Innocenti o ai Musei reali di Torino»

Dove invece questo equilibrio è saltato?
«Penso alla direzione di Brera. Non ricordo iniziative scientifiche degne di questo nome promosse dal nuovo direttore».

Eppure ha ricevuto le lodi dall’Economist ed è molto amato dalla città per la sua sfida agli immobilismi burocratici.
«Il nuovo direttore gode di grande visibilità, è sicuro. Soprattutto personale. Ma le sue proposte culturali? Non mi sentirei certo di elencare fra queste l’esposizione nelle sale della pinacoteca, alla fine dello scorso anno, di un dipinto privato di incerta attribuzione a Caravaggio. Sarebbe interessante tra l’altro verificare l’incremento di valore sul mercato dell’opera a seguito del passaggio in un’istituzione pubblica di grande rilievo quale è Brera».

Di recente il manager ha elencato risultati tangibili della sua gestione, come il riallestimento di 12 sale, i primi dialoghi fra grandi opere...
«Forse vale la pena ricordare allora anche il malfunzionamento dell’impianto di climatizzazione, lo scorso inverno. Dal quale sono derivati danni non indifferenti a diverse tavole. Certo, non è del direttore la responsabilità di questo grave incidente, ma non si può nascondere che egli non abbia vigilato adeguatamente sull’aspetto conservativo delle raccolte affidate alla sua cura dallo Stato. E pur essendogli stato chiesto, dal Segretario generale e da me, di procedere disciplinarmente contro il dipendente responsabile di aver disattivato l’allarme - come accertato da un’ispezione - egli ha preferito dichiarare ai custodi che si sarebbe addossato personalmente la colpa del disastro. Un comportamento al quale la Corte dei Conti non farebbe male a prestare la dovuta attenzione».

È il Leviatano ferito a parlare?
«Il nostro impegno è stato sempre quello di salvaguardare il prestigio e la reputazione del patrimonio statale. Riuscendo a fare, spesso con mezzi e risorse limitatissimi, cose eccezionali, dalle quali molti dei nuovi direttori sono ora ripartiti per promuovere le loro attività. Un’eredità preziosa di cui alcuni di loro stentano a riconoscere il valore, perché ignari delle difficoltà affrontate o perché cercano di sminuirne il merito, preoccupati di mettere in luce il loro apporto».

Non possiamo però dire che le gestioni pre-riforma funzionassero bene e fossero tutte eccellenti. La polvere era l’elemento più ricordato a proposito di molti di questi musei.
«La riforma era necessaria ed è stata giusta. Ma bisogna definire meglio gli obiettivi del new deal. Ripartendo dallo studio e dalla conoscenza delle opere».