La decisione sulla legge elettorale la prenderà un conclave silente e paludato. Che vive di riti e rifiuta la trasparenza. Ma conta sempre di più, nel vuoto del Parlamento
L’archivio è previsto persino dal regolamento, ma chi avrebbe avuto il potere si è ben guardato dal costituirlo. Non c’è traccia dell’attività della Corte Costituzionale. «Coperta dall’oblio eterno in ossequio a una sbagliata concezione del segreto» ha scritto il giudice emerito Sabino Cassese, «la Corte ha deciso di cancellare i documenti della sua storia. Nessuno dei più segreti atti di Stato è mai rimasto coperto per sempre dal segreto».
Una prassi che non esiste in nessun’altra Corte al mondo, il contrario di quella Suprema americana, inno alla trasparenza. Il sontuoso palazzo della Consulta, secoli fa di proprietà pontificia rimesso a nuovo un attimo dopo il tramonto dei Borgia, resta inespugnabile all’esterno. Ma, nessun altro luogo in questo momento è più centrale. E più misterioso.
In uno scenario globale dove tutto si svela, la Corte costituzionale continua a rimanere un enigma. Il papa ha un account Twitter, il Quirinale anche, persino l’ultranovantenne regina d’Inghilterra non si è sottratta. Ma la Corte non informa. Se trapela qualcosa è un oltraggio. Al massimo materializza un laconico comunicato stampa firmato «dal Palazzo della Consulta» a opera forse di un Belfagor del posto, ossessiva custode della delicatezza del ruolo. E delle implicazioni e possibili chine di pressioni politiche, ben conscia che davanti a lei si staglia l’ombra del Quirinale, con il monito presidenziale di un ex giudice costituzionale, Sergio Mattarella, il primo a aver attraversato la strada.
C’è la fitta nebbia del potere intorno ai riti, ai ritmi, alle segrete stanze, alle posizioni dei suoi giudici, giuristi, magistrati, politici, spesso quirinabili, come Cassese, Conso, Amato, riuniti nella sala del consiglio, un tavolo ovale, i microfoni neri, gli affreschi alle pareti. Pochi alieni a quel mondo hanno varcato il portone. Molti hanno scritto dei privilegi, gli stipendi, le auto blu, gli autisti, l’immunità, il costo del funzionamento oltre 60 milioni di euro all’anno. Se ne conoscono i componenti e anche i patimenti ogni volta che vanno scelti e nominati, 31 sedute e altrettante votazioni un anno fa per assegnare dal Parlamento tre posti vacanti da mesi. Per il Pd il costituzionalista Augusto Barbera, massimo esperto di leggi elettorali, non un fan del Mattarellum; per i Cinque Stelle il suo collega Franco Modugno, e per Area Popolare Giulio Prosperetti, giuslavorista e giudice della Corte d’Appello della Città del Vaticano.
Con una politica sempre più debole, incapace di dare risposte e certezze, la Corte è diventata l’unico topos risolutivo. Nel Palazzo che protegge e ripara, i tredici giudici, dovrebbero essere quindici, un trio di cinquine nominate dal Colle, dal Parlamento e dalle alte magistrature, abbigliati due-tre volte l’anno come una pièce in costume, Giuliano Amato con i volants della camicia e la toga d’ordinanza è da dipinto di Goya, hanno studiato la costituzionalità delle leggi più importanti degli ultimi anni (ogni norma può essere rimessa alla Corte), gli ultimi governi hanno dato molto lavoro, Berlusconi in testa.
E ora il segno della futura governance del Paese spetta di nuovo alla Corte con il responso più atteso di quel che resta dell’amministrazione Renzi: la costituzionalità dell’Italicum, relatore il giurista Nicolò Zanon, ex laico del Csm, vicino al Pdl, anche consultato dall’ex Cavaliere per un parere pro veritate. Il 24 gennaio il giorno x, data di partenza in un senso o nell’altro della legge elettorale di una sconosciuta nuova era politica.
I giudici hanno l’obbligo della discrezione, ha ricordato questa settimana incupito il presidente emerito Gustavo Zagrebelski dopo che sulla sentenza clou dell’11 gennaio, quella sul Jobs Act, ancora il governo Renzi sulla graticola, chiusa con un no al referendum della Cgil sull’articolo 18, un sì per quelli su voucher e appalti, sono scappati all’esterno particolari scandalosi.
Per esempio che la relatrice Silvana Sciarra, giuslavorista di Firenze indicata dal Pd, seguace, secondo alcuni colleghi più moderati, più di Maurizio Landini che del suo vero maestro Gino Giugni, avrebbe voluto allargare la consultazione referendaria anche all’articolo 18. Posizione contraria a quella di Amato, il vincitore del confronto, in campo con Prosperetti e Mario Rosario Morelli, magistrato della Corte di Cassazione, i relatori degli altri due referendum.
Sui giornali è uscita anche la conta dei voti, otto a cinque, una proporzione di contrari troppo alta per la media tacitamente consentita perché «il punto essenziale per capire il lavoro della Corte è il principio di collegialità», ha specificato una volta la vice presidente Marta Cartabia, allieva del presidente emerito Valerio Onida, scelta da Giorgio Napolitano (come Amato, Daria De Pretis e il presidente Paolo Grossi) segnalata a un certo punto perfino come quirinabile. E così stimata da provocare uno sconquasso dopo la nomina a vice presidente che sarebbe spettata a due giudici ben più anziani. Tanto che ora, pazienza per il regolamento, i vice presidenti sono dovuti diventare tre, oltre a lei, Giorgio Lattanzi, presidente di sezione della Corte di Cassazione e Aldo Carosi, consigliere dalla Corte dei Conti. In realtà, la promozione era propedeutica alla poltrona più alta della Corte secondo un brain storming di Napolitano e Cassese uno dei pochi giudici a rifiutare lui la presidenza arrivata di diritto per anzianità di nomina ma di brevità di durata rispetto alla naturale scadenza. Dettaglio che non turba tutti, visto che il circolo dei presidenti emeriti è affollatissimo da chi ha accettato di presiedere soltanto per poche settimane: un mese e 14 giorni Vincenzo Caianiello, tre mesi e due giorni Giuliano Vassalli, tre mesi e 4 giorni Giovanni Maria Flick, tre mesi e dieci giorni Giuseppe Tesauro, battezzati nello slang della Corte i “balneari”.
Con i suoi legni dorati, i damaschi di seta, i lampadari dalle cento luci, i corridoi silenziosi, la Consulta ha un clima da conclave. Per le cerimonie i commessi aiutano la vestizione, la toga nera rassettata a Diana De Petris, ex potente rettore dell’università di Trento, il collare dorato da posizionare a regola d’arte al presidente Paolo Grossi, professore di Storia del diritto italiano, stimatissimo anche se, per segnalare lo snobismo giuridico dell’ambientino, alcuni costituzionalisti puri non dimenticano l’argomento della sua tesi discussa nel 1955, secondo le biografie, sul regime giuridico delle abbazie benedettine nell’Alto Medioevo italiano.
Per Cassese la Corte è un misto tra un convento e un collegio di studenti. Nel 2015 ha osato l’inosabile scrivendo “Dentro la corte”, diario sulla sua esperienza di giudice, intento apprezzato e normale nelle aule di Yale, meno alla Consulta. Senza citare nemmeno un nome ha memorizzato i nove anni «incandescenti» segnati da sentenze storiche. Sul tavolo della Camera di consiglio, tra pennichelle, bigliettini che passano da un giudice all’altro, giudici che hanno studiato e altri meno diligenti, sono stati esaminati il lodo Alfano, l’ammissibilità dei referendum sulla legge elettorale, il caso delle intercettazioni al Presidente della Repubblica, la costituzionalità del Porcellum. Ma anche leggi che segnano pesantemente la vita privata delle persone, com’è stato il via libera alla fecondazione eterologa o le udienze pubbliche sulla “Rettificazione giudiziale di attribuzione di sesso” o persino la “Mancata depenalizzazione dell’ingiuria tra i militari”.
I giudici si danno subito del tu e si chiamano per nome. In Camera di consiglio il “vicino di banco”, soprannominato così come alla scuola materna, del primo giorno rimane lo stesso per nove anni. La Corte diventa un gruppo. I padroni del diritto sono molto competitivi sulla qualità giuridica delle argomentazioni e meno esigenti sul menù che trovano alla buvette all’ultimo piano del palazzo mentre il secondo è riservato solo ai loro uffici.
L’obiettivo è favorire la comunicazione lontano da occhi indiscreti quando durante “la settimana bianca”, che non è dedicata al pattinaggio su ghiaccio, ma è quella senza sedute pubbliche e di consiglio, si studia, ci si confronta in incontri a due, massimo a tre. Secondo le fonti, anonime perché terrorizzate, non c’è affiliazione automatica tra i giudici di nomina parlamentare, tra i giuristi o i magistrati. Valerio Onida, invece, stando a Milano nella “settimana bianca” percepiva al suo ritorno che i romani si erano scambiati idee e punti di vista.
La prima donna nominata alla Corte è stata Fernanda Contri, poi Maria Rita Saulle. Per lungo tempo, la Cartabia è stata l’unica in mezzo a soli colleghi maschi, solo dopo sono arrivate Sciarra e De Petris. «La Corte non è tra gli organi più solleciti a realizzare la parità di genere», ha ammesso Amato. «Ora su 15 giudici tre sono donne. E sono fiducioso perché c’è stato anche un momento in cui se ne vedeva una sola circondata da quattordici maschi come non capitò nemmeno a Biancaneve perché i nani erano sette, esattamente la metà».
Adesso, via via che la data del responso sull’Italicum si avvicina, l’atmosfera si surriscalda e la Corte entra nel mirino di chi teme la contaminazione politica, il condizionamento (difficile dimenticare, l’episodio, rivelato dall’Espresso, del giudice Luigi Mazzella a cena con Silvio Berlusconi al tempo del lodo Alfano, eccezione non commentabile).
Ritornano a galla annosi interrogativi. In un paese in cui si cambia legge elettorale quanto i premier è giusto ricorrere ogni volta alla Corte? Poi, si domanda qualcuno, è stata una scelta tecnica o politica aspettare il 24 gennaio allontanando così le elezioni anticipate? Forse è arrivato anche il momento di costituire un archivio, magari prendendo esempio dal Conseil constitutionnel francese che dopo venticinque anni rende pubblici i suoi verbali, evitando misteri e arcani. Molti anni fa in America Bob Woodward, quello del Watergate, e Scott Armstrong hanno pubblicato un memorabile libro sulla Corte suprema, titolo «The Brethren» i confratelli. Chissà cosa scriverebbero della Consulta.