Ragazzine che posano nude, scalatori di grattacieli, stelle e stelline. Chiunque ha diritto ad avere un pubblico. Vite davanti all’obiettivo per convincersi di esistere davvero


Ma chiunque può avere un pubblico. Ragazzine che posano seminude, fitness girl come l’americana Jen Selter, “il sedere più bello di Instagram”, scalatori di grattacieli, acrobati del parkour, in un gioco di specchi e di reciproca contemplazione. «Selfie deriva da selfhood, individualismo, e selfish, egoista», ricorda lo psicologo Edoardo Giusti, autore di un importante saggio sul narcisismo. «Anche se non si tratta di una novità assoluta (il primo autoritratto è del 1840), è un momento di onnipotenza: attore e regista coincidono. La fotografia esprime il desiderio di conoscere il desiderio dell’altro, i suoi giudizi, i suoi “I like”. A livello psicobiologico questo “I like” è un tiramisù, somministra ossitocina digitale. Abbassa stress e ansia. Compensa la mancanza di autostima, di sicurezza. Esorcizza l’incubo dell’invisibilità. Permette di trovare amicizie in modo freddo, senza rischiare, senza mettersi davvero in gioco. Gli adolescenti entrano nel mondo delle relazioni con più facilità, condividono opinioni e foto sexy che si autodistruggono. Alla fine, privilegiano la quantità più che la qualità. Conta il numero degli “amici” che hai e quello delle visualizzazioni. Se non puoi dimostrare di esistere, non esisti. La visibilità è verità. Perciò si comincia a parlare di selfie generation». O di “me-me generation”, i venti-trentenni, figli a loro volta della “me generation”, cioè i baby boomers. Ovvero l’egocentrismo al quadrato.

La convinzione di essere unici, straordinari è alla base di un ansioso bisogno di riconoscimento. Il look, i capelli colorati, un’esperienza insolita (il selfie scattato addirittura ad Auschwitz, il nudo provocatorio): tutto va bene. Perciò immaginarsi la doccia fredda quando il professor David McCullogh, nel suo discorso (ormai must su Youtube) alla cerimonia dei diplomi a Wellesley, Massachusetts, nel 2012 ha cominciato così: «Voi siete coccolati e viziati, non pensiate di essere speciali. Altri adulti -pieni di impegni- vi hanno cresciuto, vi hanno nutrito, vi hanno pulito la bocca, istruito, incoraggiato e ora miracolosamente avete conquistato il liceo. Ecco, bravi, siamo tutti qui a celebrarvi, ma non crediate per questo di essere eccezionali». Il video è appunto diventato un must perché rivela la dittatura dell’autostima: genitori in estasi davanti ai figli, con l’obbligo di esclamare: “Meraviglioso!” anche di fronte al più insignificante dei risultati. E il terrore che le critiche possano generare traumi.
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Ma i ragazzi hanno già trovato la loro via di fuga nel mondo digitale. «È come se fotografandosi cercassero l’identità che non possiedono, e la trovassero più attraverso la loro rete che attraverso i loro occhi», riflette il filosofo Umberto Galimberti: «Quasi una forma di autismo. La comunità virtuale è onnipotente nella relazione, ma impotente nel sapere viso-corpo. Così come ha imposto il lifting perché è vietato sembrare vecchi (non invecchiare è impossibile) il giovanilismo impone le mode: essere su Facebook e su Twitter, essere connessi, fare selfie. In questo atteggiamento vedo una rinuncia a confrontarci veramente con i corpi e le emozioni. Come quei monaci greci che si chiudevano in una grotta per sottrarsi alle tentazioni e credevano di vedere Dio, così oggi davanti a un computer ci illudiamo di essere dentro la vita, e accettiamo l’egemonia del virtuale sul reale».

Secondo un’indagine ISPO per l’Osservatorio Salute AstraZeneca, nella fascia 16- 35 anni la metà soffre di «sindrome del follower». Sotto i vent’anni ci sono un milione e duecentomila dipendenti dal web, 850mila “malati” di smartphone e 600mila forzati da social network. Il bisogno di apparire sul web può rendere incapaci di guardarsi dentro come in “Disconnect”, bellissimo film presentato a Venezia nel 2012: tra le tante storie c’è quella di un adolescente complicato. Riceve un selfie sexy e ricambia. Dall’altra parte non c’è una ragazza, ma i compagni di scuola che lo prendono crudelmente in giro e mettono in rete il suo nudo. Il regista Alex Rubin sostiene che «Internet cura la solitudine, ma gli effetti collaterali imprevisti possono essere molto dolorosi». In America, scrittori di culto come Jonathan Franzen hanno sparato a zero sui social network lanciando l’invito a disconnettersi. Senza essere presi troppo sul serio.
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Il desiderio di “esserci”, partecipare, condividere, è inarrestabile, transgenerazionale, creativo. Produce mondi stupefacenti, parodie. Come quella del canale russo TNT che ha saccheggiato i blockbuster truccando le scene e selezionando l’espressione più adatta al selfie. Il risultato è un video divertentissimo: c’è Edward, il vampiro di Twilight, che si toglie la camicia e scatta una foto ricordo. Voldemort che sente il bisogno di fermare in un’immagine il suo ghigno feroce. The Mask allo specchio, Indiana Jones con la frusta e persino Leonida di “300”, che archivia sullo smartphone una condanna a morte.

Marino Niola, antropologo della contemporaneità, insegna all’Università di Napoli Suor Orsola Benincasa. Autore di saggi su mode e comportamenti (l’ultimo è “Hashtag. Cronache da un paese connesso”, pubblicato da Bompiani), non condivide le visioni negative e apocalittiche, e bolla quelle di Zygmunt Bauman e dei filosofi francesi orfani dei grandi pensatori come lagne spaventose. «Sempre la stessa geremiade, lo stesso paternalismo. Il narcisismo di massa è una metafora. Dobbiamo affinare gli strumenti di analisi o il mondo ci sfugge: il selfie è semplicemente un altro modo di comunicare, è l’espressione della persona digitale che è una parte di sé e ha molti aspetti positivi. Pensiamo alle ragazze turche: in segno di protesta contro il vicepremier Bulent Arinc che ha condannato l’allegria femminile in pubblico, hanno creato l’hashtag “Resistere e ridere” ed è partita la valanga , 400mila tweet di donne sorridenti. Pensiamo al controllo che lo sguardo collettivo esercita sui comportamenti, anche politici. Alla trasparenza. La selezione culturale che un tempo era lenta, appannaggio delle élite, adesso è veloce, democratica. Siamo passati dalla comunicazione face to face alla comunicazione Face to Facebook, che male c’è?».

L’apoteosi dell’io sta nell’includere nello scatto/comunicazione un personaggio inarrivabile. È andata in giro per tutto il pianeta l’immagine della regina Elisabetta in verde pastello finita con un sorriso sorpreso e indulgente nell’inquadratura di due giocatrici di hockey australiane. Un evento del genere, raro ma non troppo, si chiama “photobomb” ed è il massimo per un selfista, un momento di gloria.

[[ge:espresso:inchieste:1.172851:article:https://espresso.repubblica.it/inchieste/2014/07/10/news/mafia-la-vita-su-facebook-del-giovane-padrino-tra-selfie-limousine-lusso-e-insulti-alla-polizia-1.172851]]«L’immagine diventa il biglietto da visita, la propria autodefinizione», interviene lo psichiatra Vittorino Andreoli, autore del saggio “La vita digitale”. Alla domanda: “chi sono?” non sappiamo più rispondere, perché la nostra identità si è dispersa in frammenti. La defininiamo ogni volta che schiacciamo un pulsante. Il sexting esprime la nostra identità di genere, il selfie racconta la vita, i viaggi, gli hobby, l’appartenenza sociale, il look. Siamo di fronte a una metamorfosi antropologica: pattiniamo in superficie verso l’empirismo radicale, con l’idea che vivere l’eterno presente della Rete possa sconfiggere l’angoscia. Ma la paura di essere dimenticati ha come confine la depressione. La prova che c’eravamo e che ci siamo è nei post e nei selfie: non possiamo più smettere. Questa smaterializzazione ci rende numeri all’interno delle “supercollettività” (come Facebook che raccoglie un miliardo di persone), aggregati che hanno un solo problema: l’efficienza. Attualmente, il 40% delle informazioni viene disperso. Colpa dei sentimenti, che gli informatici considerano “disturbi di rete” (ricordate Matrix?). Il modello che oggi studiano gli ingegneri, i matematici, e che studio anch’io, è il termitaio. Sono andato nella savana subsahariana a vedere grattacieli di insetti costruiti a strati orizzontali e collegati da canali verticali. Una rete perfetta, efficiente, ordinata, senza sentimenti. È questo il futuro che vogliamo?».

La selfie generation, per nulla preoccupata, ignora la domanda. Sta conquistando l’immortalità senza eroismi né spargimenti di sangue. Al massimo, di pixel.