Salvini e Meloni per le prossime elezioni fanno a gara con gli slogan sovranisti e tornano le invettive contro i migranti e le accuse alla ministra Lamorgese

Diciotto maggio 2019, Matteo Salvini conclude la campagna elettorale per le europee nella sua città: Milano. In piazza Duomo la Lega ha allestito un grande palco da cui si alternano i discorsi dello stato maggiore del partito. In cima alla struttura è appeso un maximanifesto con il simbolo del Carroccio e la scritta “Prima l’Italia”. A distanza di più di tre anni, quello slogan è ancora la parola d’ordine che orienta l’agenda sovranista, impostata su sicurezza e immigrazione.

 

In quell’occasione Salvini pronunciò un discorso pieno di riferimenti religiosi. «Affido l’Italia al cuore immacolato di Maria», disse agitando il rosario stretto nella mano destra. Qualche mese dopo Giorgia Meloni, da Piazza San Giovanni, a Roma, urlerà la celebre frase che - come ha ammesso nel suo libro - la trasformò «da noioso esponente politico a curioso fenomeno pop»: «Io sono Giorgia, sono una madre, sono cristiana».

 

Sui media e sui social è già partita la corsa a riaccendere i temi che scaldarono il cuore dell’elettorato sovranista durante la stagione d’oro del populismo europeo e che consegnarono alla Lega un risultato senza precedenti: 17 per cento nel 2018 e 34 per cento appena un anno dopo.

 

In quella parentesi temporale Matteo Salvini riuscì a raddoppiare i consensi senza stare all’opposizione, bensì occupando due incarichi di primo piano all’interno del governo con il Movimento 5 Stelle: quello di vicepremier e, soprattutto, quello di responsabile del Viminale. Una posizione, quest’ultima, che gli permise di spingere sui temi intorno ai quali la “nuova Lega” - meno federalista e più sovranista - decise di reimpostare la propria identità. Non è un mistero che ancora oggi Salvini voglia ritornare a occupare la stessa poltrona che lo portò all’apice dei consensi. Le elezioni anticipate (data fissata al 25 settembre) sono l’occasione giusta per (ri)tentare l’impresa, nonostante i tempi siano ormai cambiati. Non soffia più il vento populista del 2018: in mezzo c’è stata una pandemia, lo scoppio di una guerra alle porte dell’Europa e una crisi economica che ora rischia di manifestare i suoi effetti peggiori all’indomani della partita elettorale. In tutto ciò l’ex ministro ha già programmato i suoi viaggi a Lampedusa, da sempre terra di approdo dei migranti in partenza dalle coste africane. Quest’anno l’assist alla propaganda glielo offrono i numeri in aumento sugli sbarchi: quasi 40 mila a partire dall’inizio dell’anno, secondo i dati del Viminale.

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Il bersaglio è entrato nel mirino ormai da tempo. Si tratta di Luciana Lamorgese, la ministra dell’Interno che sostituì Salvini per effetto della crisi innescata dal segretario leghista nell’estate del 2019. Lamorgese è anche colei che smantellò (in parte) i cosiddetti decreti sicurezza varati da Salvini. Insomma, l’attuale responsabile dell’Interno rappresenta il capro espiatorio perfetto per la comunicazione sovranista. E le pagine social della Lega ne sono la dimostrazione.

 

Da quando è iniziata la campagna elettorale, “la bestia” ha cominciato a sfornare le solite grafiche colorate con i classici slogan anti-immigrazione stampati a caratteri cubitali. Il giorno dopo la caduta del governo guidato da Mario Draghi, Salvini ha pubblicato un fotomontaggio che lo ritrae sorridente con alle spalle un barcone carico di migranti e la scritta «torna la sicurezza, torna il coraggio». Non bastasse questo per rimarcare le ambizioni del Capitano, ci sono anche i rilanci dei titoli di giornale che parlano di una «Lampedusa al collasso» o delle Ong che «se la prendono con Salvini».

 

La campagna contro Lamorgese, in realtà, era già partita da tempo. Anche durante il governo-Draghi, il segretario leghista non ha mai perso occasione per screditare la ministra dell’Interno, soprattutto sul capitolo sbarchi. Da inizio anno sui profili Instagram e Facebook di Salvini sono stati sponsorizzati ben 4 post a tema immigrazione, tutti indirizzati contro la politica di Lamorgese. Secondo la libreria inserzioni di Facebook, l’ammontare speso dal partito per la sponsorizzazione degli ultimi due post ammonta a più di 10 mila euro.

 

Guardando a Twitter, nei primi giorni di campagna elettorale la macchina social del Carroccio ha cominciato a spingere di nuovo sull’acceleratore: la galassia di account riconducibili alla Lega è quella che, rispetto agli altri partiti, ha generato il numero più alto di tweet. Secondo l’Osservatorio italiano sui media digitali (Idmo), il Carroccio ha prodotto il 25 per cento (la fetta più consistente) dei tweet presi in esame. Sicurezza e immigrazione la fanno da padrone, all’interno delle bacheche sovraniste. Comprese quelle di Fratelli d’Italia che, sempre secondo Idmo, ha prodotto l’11 per cento dei tweet, la metà rispetto al partito di Salvini. Che la macchina social di Fratelli d’Italia non sia rodata tanto quanto quella del Capitano non è una novità. Eppure, rispetto alle scorse elezioni, ora il partito di Giorgia Meloni risulta essere il favorito.

 

Nel corso dell’ultima legislatura anche Meloni ha più volte messo nel mirino Lamorgese. Incalzandola - al pari di Salvini - su immigrazione e sicurezza, senza però mai cadere nella contraddizione che caratterizzava l’alleato leghista: quella di sedere tra i banchi del governo. Oggi come ieri Meloni sostiene il blocco navale contro gli sbarchi e pubblica video di risse da marciapiede per criminalizzare l’immigrazione. Anche sul tema dei diritti gli slogan sono identici a quelli utilizzati nel 2019 durante il comizio andato in scena alla manifestazione romana di Piazza San Giovanni. Di più: quell’«io sono Giorgia» è stato replicato appena due mesi fa, nel giugno scorso, durante la manifestazione di Vox, in cui Meloni fu invitata a parlare davanti ai militanti dell’estrema destra spagnola. «Si alla famiglia naturale, no alla lobby Lgbt», gridò dal palco allestito in occasione della campagna elettorale in Andalusia. «Sì all’identità di genere, no all’ideologia gender». E ancora: «Sì alla cultura dalla vita, no alla cultura della morte». Il discorso ottenne lo stesso clamore di quello pronunciato poco meno di tre anni prima. Non tanto, questa volta, per l’ironia che suscitò; quanto per le polemiche che mosse non appena quelle parole arrivarono ai media italiani. Quegli slogan vennero considerati come un manifestato di estrema destra. Perché se la presidente di FdI nel 2019 era ancora una leader in fase di ascesa, ora è accreditata come la frontwoman dello schieramento che potrebbe vincere le prossime elezioni.

 

Le parole d’ordine - le stesse che lanciava Salvini nel 2018 - potrebbero trasformarsi in programma di governo. Rimane l’incognita legata al periodo storico, profondamente mutato rispetto al clima che ha caratterizzato l’inizio della legislatura. Gli slogan sovranisti sono ancora capaci di persuadere l’elettorato?

 

Sulla pandemia Meloni ha preferito martellare il governo su lockdown e obbligo vaccinale. Con la guerra in Ucraina e l’avvicinarsi delle urne, però, la presidente di FdI ha dovuto iniziare ad accreditarsi come leader responsabile, pro-Ucraina e filoatlantica. Il tutto nonostante gli elogi spesi negli anni precedenti in favore del modello-Russia. Gli archivi social ne conservano la memoria: «Giusto che sul futuro della Crimea si esprima il popolo con un referendum», twittava la leader sovranista nel 2014. Oggi Meloni critica Vladimir Putin, si schiera con l’Occidente e incontra l’ambasciatore di Taiwan in chiave anti-cinese. Ma non appena partì l’invasione russa (24 febbraio), il quartier generale di FdI fu costretto ad impartire un ordine di scuderia indirizzato a tutti i militanti: «Di fronte a un attacco militare all’Occidente, al di là delle responsabilità, ci si schiera con i propri alleati», era l’incipit delle lettere indirizzate alle sedi romane del partito. «Pertanto è necessario monitorare le azioni dei propri iscritti, per non incorrere in azioni disciplinari» Il timore, forse, era che le vecchie simpatie putiniane della base potessero riemergere in un momento delicato: alzate di testa che avrebbero potuto pregiudicare la credibilità di Meloni in vista delle elezioni.

 

Ad oggi è lei l’unica leader del centrodestra ad essersi distanziata in maniera netta dall’intervento russo, ad aver preso le distanze dallo Zar . Silvio Berlusconi - impegnato in una campagna elettorale costruita come un revival delle promesse del passato - non è ancora riuscito a condannare il vecchio amico Vladimir. E Matteo Salvini, dal canto suo, non ha mai smesso di strizzare l’occhio a Mosca, programmando viaggi di pace con l’ambasciata russa e schierandosi contro l’invio delle armi all’esercito Ucraino.