Inizia alla commissione di Palazzo Madama l'esame del ddl sulle riforme. Ma oltre ai punti chiave del Senato elettivo e dell'immunità su cui si giocano gli equilibri politici, tra le 700 pagine di emendamenti gli onorevoli hanno proposto diverse modifiche curiose: dal chiamare la Camera "Ecclesia nazionale", all'alternanza di genere al Quirinale

C’è chi vorrebbe ribattezzare la Camera dei Deputati “Assemblea Nazionale”, chi “assise degli eletti”, chi “bulè”, chi “duma”, “dieta dei rappresentanti” o addirittura “coorte”. E non mancano quelli che vorrebbero che la cosa acquisti un retrogusto quasi religioso proponendo “congregazione degli eletti” o “ecclesia nazionale”. Basta già questo per capire che c’è di tutto nella valanga di emendamenti e subemendamenti presentati al ddl governativo sulle riforme costituzionali. Insomma, il lavoro per la commissione Affari Costituzionali di Palazzo Madama sarà a dir poco complicato: da oggi pomeriggio infatti andranno ai voti le centinaia di proposte presentate (il volume completo è di oltre 700 pagine), alcune delle quali, come abbiamo visto, a dir poco bislacche. O, perlomeno, fuori luogo.

Dalla Lega al M5S: ognuno tira l’acqua al suo mulino.
Certo: è probabile che una buona fetta degli emendamenti presentati rientri semplicemente in una strategia ostruzionista. In alcuni casi, però, sono le battaglia di una vita a riaffiorare. E allora, per dire, ecco i senatori leghisti Centinaio e Businella che, nonostante la riforma tocchi soltanto la seconda parte della Carta, propongono anche di modificare l’articolo uno della nostra Costituzione in un più padano: “L’Italia è una repubblica federale democratica fondata sul lavoro”. E non è un caso, allora, che per i due cambierebbe anche il secondo comma: la sovranità non apparterrebbe più al “popolo”, ma ai “popoli”. Non c’è d’altronde da sorprendersi dato che sempre gli stessi senatori chiedono anche che il “Senato delle Autonomie” venga ribattezzato “Consiglio federale”.
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Ma la Lega non è l’unico partito che ha cercato di tirare l’acqua al suo mulino. Tutti hanno colto l’occasione per portare avanti le proprie battaglie. Un altro esempio arriva dritto dritto da un gruppo di senatori M5S i quali, nonostante l’oggetto della riforma, hanno pensato di presentare un emendamento di modifica all’articolo 21 per rendere l’accesso ad internet gratis per tutti e per favorire “lo sviluppo della tecnologia informatica”.

Il senatore Pd che chiede l’abolizione del Senato.
Non mancano, però, anche voci fuori dal coro. Se infatti Renzi ha parlato chiaro sull’esigenza di trasformare l’attuale Senato in un’assemblea di rappresentanti regionali e locali, ecco spuntare chi, anche all’interno del Partito Democratico, la pensa diversamente dal segretario. Lo dimostrano i tanti emendamenti a firma Pd che, nei fatti, manterrebbero inalterati nome e funzioni dell’attuale istituzione di Palazzo Madama e, soprattutto, gli emendamenti di chi, di contro, ne chiede addirittura l’abolizione tout-court. È il caso del senatore molisano (e cuperliano) Roberto Ruta, il quale ha presentato l'emendamento: “Il Parlamento è formato dalla Camera dei Deputati”. Punto.

Il numero dei rappresentanti? Ognuno dice la sua. Ma sulle retribuzioni la partita è (ancora) aperta.
Quello che sembra, insomma, è che ognuno dica la sua. E non solo su nomi e funzioni di Montecitorio e Palazzo Madama, ma anche sul numero dei rappresentanti. E qui le cifre - è proprio il caso di dirlo - si sprecano. Tutti, o quasi, chiedono una riduzione del numero di 630 deputati. Ma su quanti dovrebbero essere c’è confusione: per alcuni dovrebbero essere 500, per altri 450, altri ancora chiedono che si scenda a 300, altri ne vorrebbero 320, fino ad arrivare a chi ne chiede il dimezzamento (315). Una battaglia aperta, come quella sul tetto alle retribuzioni previsto dal ddl governativo (articolo 29): non sono pochi gli emendamenti (una decina) che, semplicemente, ne chiedono la sua abolizione.

Revoca del mandato e referendum. Ma non per tutto.
Non fai bene il tuo lavoro? Niente fine legislatura, revoca del mandato e via a casa. Sembrerebbe un meccanismo un po’ da “casa del Grande Fratello”, eppure gli emendamenti che vanno in questo senso, presentati soprattutto da M5S e Sel, non sono pochi. Il meccanismo è piuttosto semplice. Trascorso un determinato periodo di tempo (c’è chi parla di 18 mesi, chi di 12), se un tot di elettori (per alcuni il 20%, per altri basterebbe il 12), sfiducia il parlamentare, questi dovrebbe fare le valige e andare a casa. Senza se e senza ma.

L’idea di tanti senatori, a quanto pare, è quella di rendere i cittadini più partecipi alla vita politica. Ed è questo il motivo per cui tanti emendamenti insistono anche sul ricorso a referendum deliberativi, propositivi o confermativi. Ma non su tutte le questioni. Per alcuni “non è ammesso il referendum per le leggi tributarie e di bilancio”, per altri quando si parla “di amnistia e di indulto”. Per altri ancora niente referendum “sulle leggi di autorizzazione a ratificare trattati internazionali”.

Nessuno mi può giudicare
Non poteva mancare, ovviamente, il capitolo indennità. E anche qui gli emendamenti si sprecano. La questione è molto delicata, anche perché qui si giocherà presumibilmente il placet di Forza Italia. Non stupisce, allora, che un folto numero di berlusconiani abbia presentato proposte che insistono sulla necessità che qualsiasi intercettazione, controllo, sequestro o perquisizione avvenga solo e soltanto previa autorizzazione della Camera. Ma c’è anche chi ha pensato di andare oltre.

L’assist è stato offerto da un gruppo di leghisti per i quali, affinchè si possa arrestare un parlamentare o metterlo ai domiciliari, non basta che lo dica la magistratura nel caso in cui, come capitato in passato, si corra il rischio che qualcuno inquini le prove o fugga. Per costoro, infatti, si può procedere all’arresto solo e soltanto dinanzi a “sentenza definitiva e irrevocabile”. Per fare l’esempio più recente: se questo emendamento fosse stato legge, il deputato Pd Francantonio Genovese non sarebbe mai finito ai domiciliari.

Donne al Quirinale e nuove regioni.
Le stranezze, però, non finiscono qui. E allora, con l’occasione, c’è anche chi ha pensato che fosse il caso di modificare la cartina politica dell’Italia. Ci ha pensato il senatore D’Alì: via le 20 regioni ed ecco le nuove sei. Nord Ovest, Nord Est, Centro, Sud, Sicilia e Sardegna. E nel caso in cui dovessero essere aree troppo estese? Niente paura: c’è chi ha pensato anche alla possibilità di “istituire un livello amministrativo sovra-comunale”. In pratica, le vecchie-nuove province.

Infine, capitolo Presidente della Repubblica. Per i già citati senatori leghisti Centinaio e Businella è ora che al Quirinale salga una donna. Per legge. Ed ecco allora la curiosa proposta: “Nel rispetto del principio della parità di genere è eletto un cittadino di sesso differente rispetto al Presidente in carica”.