L'ultimo appuntamento con i nostri incontri itineranti il primo giugno al Festival dell'economia di Trento. Per parlare di come la mano pubblica dovrebbe alimentare la ripresa e invece non lo fa. Senza dimenticare il problema della corruzione

Per superare la crisi e riavviare un percorso di sviluppo bisogna espandere la presenza pubblica nell’economia? E, se così deve essere, quali settori andrebbero privilegiati: altamente innovativi, maturi ma strategici, dei servizi, della finanza? Con quali strumenti: imprese pubbliche, partecipazioni di controllo o di minoranza, incentivi, protezioni doganali? Oppure, viceversa, è necessario procedere con privatizzazioni e liberalizzazioni? E in quali campi? Sono questi i temi dell’ultimo “Dialogo dell’Espresso” di questa stagione, che si terrà il primo giugno a Trento, alle ore 15 e 30 nella Sala Filarmonica di via Verdi 30. Nell’ambito del Festival dell’Economia - di cui è direttore scientifico Tito Boeri - che quest’anno è dedicato a “Classi dirigenti, crescita e bene comune”.

A confrontarsi sul tema “A guida pubblica o privata?”, coordinati da Bruno Manfellotto, saranno due esperti di economia: Luigi Zingales e Massimo Mucchetti insieme al responsabile dell’Economia de “l’Espresso” Luca Piana.

Zingales insegna alla University of Chicago Booth School of Business ed è da poco entrato a far parte del consiglio d’amministrazione dell’Eni. La rivista “Foreign Policy” lo ha inserito due anni fa nella sua lista dei cento pensatori più influenti del mondo, e si potrebbe definire, parafrasando Bach, “un liberista ben temperato”. Tanto che la rubrica che tiene sull’“Espresso” s’intitola “Libero mercato” . Ma ciò non gli impedisce affatto di ripetere con determinazione che il mercato ha bisogno di regole giuste e severe, che «senza un sano controllo democratico il capitalismo diventa corrotto. Questa corruzione non si risolve sopprimendo il mercato, ma rendendo il mercato più trasparente, più competitivo, più… vero mercato». Fra le sue opere rivolte a un pubblico non strettamente accademico cisono due i cui titoli chiariscono le priorità dell’autore: “Salvare il capitalismo dai capitalisti” (Einaudi), e “Manifesto Capitalista. Una rivoluzione liberale contro un’economia corrotta” (Rizzoli) dove denuncia lobbies e monopoli che rischiano di affossare «il migliore dei sistemi possibili», il capitalismo, appunto.

Di orientamento opposto è Mucchetti, che fino al 2003 è stato vicedirettore dell’“Espresso”, e oggi è senatore del Pd e presidente della Commissione Industria. Ha scritto “Licenziare i padroni?” (Feltrinelli) dove è netto: quattro grandi gruppi privati analizzati nel libro, in un ampio periodo di tempo, hanno distrutto ricchezza per miliardi di euro, mentre invece alcuni grossi conglomerati che erano pubblici negli anni esaminati (Telecom, Enel, Eni) l’hanno creata.

Quanto all’opportunità di allargare la presenza pubblica nell’economia, Mucchetti non ha dubbi: «L’iniziativa pubblica è alla base della ripresa, peraltro ancora fragile, degli Stati Uniti. È stato il Tesoro Usa a ricapitalizzare le banche e le assicurazioni, non dimentichiamo Aig, a salvare Fanny Mae e Freddie Mac, volano dell’immobiliare, a sostenere l’auto di Detroit, a continuare a finanziare il budget enorme della difesa». 
Di questa esperienza americana secondo il senatore si dovrebbe tener conto anche in Italia dove «banche e imprese faticano ad accedere al mercato dei capitali che pure sarebbe ora generoso con l’Italia. Per quel che riguarda le modalità dell’intervento statale, perché escludere partecipazioni pubbliche temporanee, nuova domanda pubblica qualificata, riequilibrio tra Ue e resto del mondo nelle relazioni commerciali e nei vincoli ambientali?».

Il principale ostacolo, secondo Mucchetti è «il timore di diluire le posizioni di potere a causa di eventuali aumenti di capitale e, al tempo stesso, la linea dei governi e della stessa Banca d’Italia è troppo equivoca tra nazionalismo e mercatismo sulla vexata quaestio del controllo italiano di taluni grandi gruppi».
Zingales ha ribadito ancora di recente la sua preferenza in generale tra impresa pubblica e impresa privata: “Nonostante i proclami bellicosi dei suoi sostenitori, la proprietà pubblica delle imprese la maggior parte delle volte crea un azionista assenteista o peggio agli ordini dei soci privati. Nel migliore dei casi la proprietà pubblica si traduce in un regalo agli azionisti privati (che possono controllare una società con un pacchetto di azioni molto limitato), nel peggiore in un centro di potere autoreferenziale, che controlla il potere politico anziché viceversa”.

Nello specifico caso italiano, l’opinione del professore risulta ancor più negativa sul ruolo pubblico, fino al punto da chiedersi se sia possibile fare una politica industriale nel nostro paese. Ecco cos’ha dichiarato a “L’Espresso”: «Se fossimo in Svezia, il dibattito su quale politica industriale vogliamo dal governo potrebbe essere un dibattito interessante. Mucchetti e io ci troveremmo probabilmente su due posizioni opposte, ma dovrei riconoscere che la ragione non sta tutta dalla mia parte».

Ma non siamo in Scandinavia bensì in Italia. E allora? «La ricerca e sviluppo crea importanti spillover. Una politica industriale seria che promuova la ricerca e sviluppo nei settori giusti certamente potrebbe contribuire allo sviluppo economico. Purtroppo il segreto sta tutto nei due aggettivi seria e giusti. Seria significa non corrotta. Nei settori giusti significa che lo Stato deve essere in grado di identificare in maniera effettiva quali siano questi settori. Forse - dico forse - questo è possibile in Svezia, ma non mi sembra possibile neanche negli Stati Uniti d’America, che certamente sono meno corrotti dell’Italia. Un’Italia che non è in grado di avere una politica industriale neppure nei settori dove ha importanti partecipazioni in società quotate. Un’Italia che non è in grado di spendere i fondi allocati dall’Unione europea. Questa Italia non è in grado di gestire una politica industriale. La migliore politica industriale che questa Italia possa fare è far rispettare le leggi e tagliare le imposte».

Forse con meno pessimismo, ma anche Mucchetti nutre seri dubbi sulle capacità del nostro Stato di fare le scelte giuste: «Quanto ai settori della presenza pubblica non credo alla ripartizione cosiddetta strategica. Sotto questo aggettivo si nascondono le vergogne. È arduo dire che cosa è strategico e che cosa no. Non è strategica la Fiat ma lo è Ansaldo Energia? Siamo al ridicolo. Meglio riconoscere che il capitalismo privato italiano in questa fase non è in grado di esprimere leadership nelle grandi imprese, tranne rarissime eccezioni, e agire di conseguenza».

Le posizioni di Zingales e Mucchetti sono quindi diverse ma comunque non diametralmente opposte, lo dimostrano pure i titoli dei rispettivi saggi prima ricordati: entrambi scommettono molto sul varo di regole più rigorose per i mercati (il senatore è anche autore di una proposta di riforma dell’Opa, Offerta pubblica di acquisto).

A Trento sarà possibile verificare più da vicino punti di divergenza e punti di contatto fra i due interlocutori e, soprattutto, chiarirsi le idee su un argomento con molte facce. Si preannuncia comunque un confronto vivace, destinato a catturare l’interesse del pubblico presente al Festival.