Il 18 maggio la manifestazione dei braccianti per incontrare Draghi. Una rete di Agorà, un’assemblea in autunno. E poi un nuovo modello: «Ci candiremo alle elezioni». Colloquio con il sindacalista

Tre anni fa guidò un corteo in Calabria che chiedeva giustizia per Soumaila Sacko, il bracciante e sindacalista arrivato dal Mali, ucciso a fucilate il 2 giugno, festa della Repubblica. Il primo governo di Giuseppe Conte, con Matteo Salvini al Viminale, aveva giurato da poche ore. Oggi il sindacalista Aboubakar Soumahoro è un leader politico riconosciuto, rispettato, amato. I lettori dell’Espresso lo conoscono bene per la sua rubrica “Prima gli esseri umani”. Si prepara a manifestare davanti a Palazzo Chigi, il 18 maggio, con la Lega dei braccianti. L’inizio di un percorso che porterà gli Invisibili a un’assemblea nazionale a settembre. E poi alla sfida delle elezioni politiche: «Ci candideremo».

 

Perché la manifestazione del 18 maggio?

«Perché nelle campagne c’è l’inferno che si manifesta nelle baroccopoli. Dodici ore di lavoro per una paga misera di 25 o 30 euro per chi è fortunato o per una paga in natura, qualche chilo di passata di pomodoro o qualche litro di olio. C’è una assenza di minime condizioni umanitarie che ricorda quelle di cui parlava l’indagine parlamentare sui braccianti di inizio Novecento: paghe misere, capolarato, il monopolio dei grandi produttori che oggi è la grande distribuzione organizzata. Il riflesso di quanto avviene nelle campagne ricade sul mondo del lavoro in generale: Luana D’Orazio e i morti sul lavoro, i lavoratori di Amazon, la precarietà esistenziale nella Ztl, i cassieri ridotti a codici a barre viventi, i rider. L’inferno della invisibilità è giunto a un bivio: o si sta dalla parte degli uomini e delle donne che lavorano oppure dalla parte opposta. È giunto il momento di schierarsi. Invisibili di tutta Italia, uniamoci».

 

Tu però sei molto visibile. Ti sei incatenato a Villa Pamphili a Roma, dove si svolgevano gli Stati Generali del governo Conte: sembra passato un secolo, era solo un anno fa.

«La protesta era solitaria, ma era a disposizione di un sentimento collettivo. Un singolo a vantaggio di un noi. In quei giorni Mohammed Ben Ali, bracciante, era morto carbonizzato tra le fiamme nell’insediamento di Borgo Mezzanone nelle campagne della Puglia. Sono stato ricevuto dopo ore di sciopero della fame e della sete dall’allora Presidente del Consiglio Giuseppe Conte e da alcuni ministri. Ci ascoltarono. Proponemmo la riforma della filiera agricola, con l’introduzione della patente del cibo, il permesso di soggiorno per l’emergenza sanitaria convertibile per attività lavorativa, i diritti di cittadinanza».

 

Cosa ti risposero?

«Conte disse: è geniale! Ma il vento dell’equilibrismo politico ha portato subito via la genialità. Non si fece nulla di nulla».

 

In realtà ne uscì una sanatoria per i lavoratori nelle campagne e nelle case, con il pianto della ministra Bellanova.

«Quelle lacrime non hanno asciugato le nostre lacrime. Si è voluta salvare la raccolta della frutta e della verdura senza salvare le persone. I dati dimostrano che la regolarizzazione è stata un fallimento: 207mila domande, il 15 per cento nelle campagne, l’85 per cento nel lavoro domestico».

 

Dopo è arrivata la manifestazione degli Invisibili a Roma, a luglio, in piazza San Giovanni, la sede delle grandi manifestazioni politiche e sindacali. E dopo?

«Dopo è arrivata la Lega dei braccianti con gli sportelli itineranti. È nata da un settore particolare, ma mai con uno spirito corporativista. Cos’è oggi il lavoro? Non si può continuare a parlare di lavoro con un linguaggio monocolore, come fa il Recovery Plan che alla lotta al lavoro sommerso dedica cinque righe su trecento. Abbiamo bussato a tutte le porte, a livello comunale, regionale, nazionale. In un quartiere popolare non sanno cosa sia la transizione ecologica, sanno che l’autobus non passa e che bruciano i rifiuti. Tutti si nascondono dietro l’equilibrismo politico. Per questo bisogna aprire un processo rivoluzionario, spirituale, morale, espressione di un progressismo trasformativo. O si lavora per contrastare la povertà, creare lavoro e trasformare radicalmente il nostro sistema economico verso basi ecologiche e di giustizia sociale. Oppure assisteremo ad una lenta ma progressiva implosione delle forze progressiste. È arrivata l’ora che queste persone illuminino il buio della politica».

 

Io credo che dopo tutti questi mesi tu debba andare più in profondità, nel concreto di una proposta politica.

«Il progetto è chiaro: federare il mondo degli invisibili. Rider, disoccupati, studenti, partite Iva. Il mondo della cultura che è sceso in piazza. Il mondo dell’informazione che non sia espressione della precarietà diffusa. La Costituzione, ha detto Pietro Calamandrei, è un foglio di carta, perché si muova bisogna ogni giorno rimetterci dentro il combustibile. Le agorà popolari servono a questo. Superare la dittatura del presentismo, un tessuto corrotto dalla bulimia, dall’impossibilità di ascoltare l’altro, il suo battito di cuore. Il non respiro di George Floyd, un anno dopo la sua uccisione, in Italia è questo: non respiro perché ci sono le disuguaglianze sociali, perché i miei diritti non sono rispettati. Vogliamo costruire una comunità politica».

 

Sembrano più le parole di un profeta che di un politico.

«Oggi lottare per il cambiamento non significa aspettare un profeta, ma sconfiggere uno spirito avido che ci ha reso ciechi. Toni Morrison scriveva che la mia libertà passa dalla liberazione altrui. Il no è secco, ma non è un no rinunciatario. È la richiesta di una politica alta, altra, diversa da quella che ci ha ridotto a merce elettorale. Non bisogna abbattere il Palazzo, ma renderlo di nuovo abitabile. Se il Palazzo è il luogo dove ridare speranza, è lì che bisogna entrare. Siamo federatori, ci interessa anche il passaggio politico e elettorale».

 

Parteciperete alle elezioni amministrative d’autunno?

«Diremo quale Roma, quale Milano, quale Torino e Napoli vogliamo per domani. Presenteremo le nostre proposte per le città, non solo per le metropoli ma anche per i piccoli comuni. E a settembre faremo un grande appuntamento popolare».

 

Per far nascere un nuovo partito?

«Dobbiamo immaginare nuovi contenitori. La Lega è al governo dal 1994, dice prima gli italiani e la flat tax, superata dalle politiche del presidente Biden che non è un rivoluzionario. Il Movimento 5 Stelle ha affermato di aver abolito la povertà, ma non è così. Il Pd è il partito dello status quo. C’è una crisi di autorevolezza della rappresentanza. La comunità degli Invisibili è una lavagna bianca da scrivere sull’Italia di domani. Il nostro orizzonte sono le elezioni politiche».

 

Alle politiche ci sarà una lista degli Invisibili?

«Ci candideremo, certamente. Con un progetto che nascerà dai momenti di ascolto, dal lavoro, dai tanti mondi che si stanno avvicinando alle agorà con entusiasmo. È un modello da immaginare, ma si materializzerà, ne sono convinto».

 

Hai visto Enrico Letta dopo la sua elezione a segretario del Pd. Che vi siete detti?

«È stato il professor Letta a invitarmi, nel rispetto dell’autonomia politica. Ci ha invitato a partecipare alle agorà del Pd, valuteremo se andare o meno. Io gli ho detto che noi abbiamo cominciato a fare le nostre agorà popolari quando lui insegnava ancora a Parigi e che abbiamo parlato di leadership collettiva prima che lui accennasse alla intelligenza collettiva del Pd: chi sta copiando? Il Pd ha governato per nove anni su dieci, ha approvato il jobs act e il decreto Minniti, firmato da un ministro dell’Interno che temeva per la tenuta della democrazia per via degli sbarchi di migranti. Forse avrebbe dovuto avere questo timore per la disoccupazione giovanile, per un milione di posti di lavoro persi».

 

Ilvo Diamanti ha scritto su Repubblica che l’anno della pandemia ha fatto crollare la partecipazione, nei partiti, nell’associazionismo, nel volontariato.

«È una crisi che ha a che fare con il mondo del lavoro. Una politica disconnessa dalla realtà non può trovare una connessione con le persone. Sul Piano nazionale non c’è stato ascolto, non c’è stato un “débat public”. Oggi la politica appare un voler stare a tutti i costi sul bus pur di esserne alla guida. Anche quelle forze che dicono di voler cambiare sono parte di questo problema».

 

Ti riferisci anche al Movimento 5 Stelle?

«La frase sull’abolizione della povertà è stata la rappresentazione plastica della loro disconnessione dalla realtà».

 

Hai incontrato Conte, vuoi incontrare anche Mario Draghi?

«Gli abbiamo inviato un documento, chiediamo un incontro il 18 maggio. Porteremo proposte concrete. Speriamo di non sentirci dire di nuovo: sono cose geniali!».

 

Il 2 giugno sono i 75 anni della Repubblica, ma anche i tre anni dall’omicidio di Soumaila Sacko, da quando è cominciato il tuo percorso politico. Com’è cambiata la tua vita in questi tre anni?

«Non amo parlare di me. Mia mamma mi diceva: non girare le spalle a chi ha bisogno, non essere indifferente. Fare il sindacato, fare l’attivista è per me prima di tutto una questione di spirito. Ma guai a pensare che tutto questo sia espressione di un singolo. È un mondo che c’era e che c’è, che rimane, anche quando i riflettori sono spenti. Sai perché? Perché la povertà non è pop».

 

Senti la responsabilità di essere diventato un simbolo, un leader, un portavoce?

«Sento tutto il peso, sì. Ma è una responsabilità che nella sua pesantezza sa di avere allo stesso tempo una leggerezza che è racchiusa nel noi, nella leadership collettiva».