La lotta quotidiana del sindacalista che chiede diritti per i braccianti più sfruttati, spesso immigrati, al centro di un approfondimento internazionale. Perché la lotta per difendere gli ultimi non riguarda solo l'Italia

«Il distanziamento sociale è un privilegio». Parole che ci sono entrate dentro e abbiamo tenuto dentro di noi, per mesi.
 
A dirle, come una battuta – con tutta la nuda verità che solo l'ironia fa passare – è stato il sindacalista italo-ivoriano ed ex bracciante Aboubakar Soumahoro in una delle nostre prime, cordiali chiacchierate per telefono. Lui, in treno, bus, in mezzo ai campi o in un cosiddetto "ghetto" –– come alcuni ancora li chiamano (un termine che in America sarebbe bocciato come "politically incorrect"). Noi a casa nostra, a Washington, DC, separate dal distanziamento sociale nel semi-lockdown che gli Stati Uniti di Trump non hanno mai imposto seriamente. Dato che tutto è “in remoto” – ho pensato – perché non fare un documentario in Italia, a distanza? Così pensava anche la mia collega Carola Mamberto, altra giornalista e producer italiana a Washington.
 
Così, insieme e improvvisando, abbiamo capito che volevamo raccontare la lotta dei braccianti e dei migranti che cercano voce. La storia era urgente e aveva una dimensione internazionale che risuonava con molte delle tensioni che sono cresciute negli Stati Uniti negli ultimi anni. L'immigrazione, la disuguaglianza razziale, i diritti del lavoro e alla salute. Soprattutto il paradosso di essere "essential workers" e privati di tutti i diritti, dall'assistenza sanitaria al privilegio di poter lavorare da casa e proteggersi dal contagio.

Secondo recenti statistiche, solo un americano su quattro lavorava da casa. I numeri ora, in pandemia, sono probabilmente diversi perché molti hanno adottato telelavoro o smart working, ma rendono comunque l'idea di chi può beneficiare di più flessibilità nel lavoro. Secondo questi dati, tra il 25 per cento dei più abbienti, quasi due persone su tre lavorano da casa. Lo stesso privilegio è dato solo a circa una persona su dieci nel 25 per cento di popolazione meno abbiente. Insomma, gli strati più poveri hanno meno probabilità di poter lavorare da casa. E la popolazione nera e quella ‘brown’ (di latino americani), non a caso, sono le più colpite dal Covid.
 
«C'è un sindacalista, un nuovo leader, che mi sento potrebbe essere la nostra guida» mi ha detto Carola. E ho sentito una vibrazione nella sua voce, un'emozione che mi ha convinta. La sera stessa abbiamo mandato ad Aboubakar Soumahoro la nostra richiesta, e lui ci ha – gentilmente, in modo formale ma subito intimo – garantito l'accesso, la fiducia.
 
Guarda il documentario di Diana Ferrero e Carola Mamberto su YouTube



Da lì sono iniziati due mesi di lavoro ininterrotto. Fare un documentario è un'operazione artigianale. Soprattutto se "fatto in casa" come lo abbiamo fatto noi. Durante il lockdown. A distanza. Io chiusa in camera, scrivendo e facendo reporting sull'Italia, con due bambini che bussavano alla porta per chiedere aiuto a fare i compiti. Carola nel suo basement, dirigendo insieme a me le riprese a distanza, mentre montava il pezzo da sola, sul suo computer, tra un'interruzione e l'altra dei figli.
 
Aboubakar ci ha permesso di seguirlo in un suo breve viaggio in Puglia, quando - sfidando il lockdown e le restrizioni di viaggio - portava mascherine e cibo ai braccianti, affamati e senza lavoro, mentre gli asparagi iniziavano a marcire nei campi. Ci ha dato un accesso breve, ma unico, nello spaccato di vita di migranti senza nome, in un momento in cui tutta l'Italia stava chiusa a casa. Ma quello che ci ha dato – più di tutto – è stata la possibilità di documentare il suo lavoro di 'documentarista'. Quando abbiamo visto i suoi video, girati al cellulare, e lui stesso fare domande al bracciante dietro di lui che candidamente e in ottimo italiano dice "Ti pagano 4 euro all'ora, 3 euro e mezzo all'ora, senza i contratti e senza i loro diritti" per noi è stato chiaro.

Bisognava documentare il suo lavoro, mentre lui stesso documentava la vita e il lavoro dei migranti sfruttati, in condizioni di quasi schiavitù, nei campi e nelle tendopoli del Sud. Bisognava usare i suoi stessi materiali. I suoi stessi video, montati con le nostre immagini ad alta risoluzione (girate in 4K a distanza per noi da un DP locale di Foggia, Sergio Grillo) che riprendono Aboubakar mentre si fa una selfie con i braccianti, o li sistema dietro si sé, come un regista sul set, per filmare il loro coro di denuncia.

"Siamo esseri umani, non braccia! Siamo esseri umani, non braccia" dicono i braccianti in un suo video su Facebook, uno dei tanti che hanno attirato l'attenzione di 150,000 followers e sono diventati un potente strumento narrativo. Potente perché viene da lì. Viene dai campi. Viene da un lavoratore che ammette "Io da questa miseria ci sono nato", che ne è venuto fuori laureandosi in Sociologia all'Università di Napoli, e sa cosa significa il sudore e spaccarsi la schiena per 14 ore al giorno per pochi spicci da dividere con il caporale di turno. E sa anche che invece c'è un altro modo. Ci sono dei diritti che devono essere garantiti a tutti, senza distinzione di provenienza, razza e religione, ed è il momento di reclamarli.
 
La storia dello sfruttamento dei migranti – che siano braccianti, muratori, colf o badanti che dedicano la loro vita a contribuire al nostro benessere senza uno straccio di contratto di lavoro – è una storia vecchia in Italia. E anche il loro sfruttamento e la loro estorsione da parte delle mafie locali.
 
Ma quello che ci è sembrato diverso in questa storia – e importante da documentare in questo momento – è che ora c'è un leader, c'è un movimento, ci sono istituzioni pronte ad ascoltare. Come il Sindaco di Milano Giuseppe Sala – che dice: «Personalmente mi espongo su questa battaglia di Aboubakar perché la trovo una cosa giusta e perché in questa fase, in questa crisi che stiamo vivendo, noi dobbiamo veramente cercare di riflettere a come possiamo cambiare le cose». O come Papa Francesco, che il 6 maggio si è detto particolarmente colpito dalle richieste dei braccianti, e in particolare, dei migranti, e ha invitato "a fare della crisi l'occasione per rimettere al centro la dignità della persona e la dignità del lavoro." Ma anche come i tanti giovani, millennials e non, pronti ad andare in piazza sfidando il virus, ispirati anche dalle proteste Black Lives Matter contro le ingiustizie razziali che stanno dividendo l'America, una tra tutte l'arresto e omicidio di George Floyd. Tutto questo mentre – 'grazie' al Covid che sta costringendo tutti a rivalutare priorità, disuguaglianze e privilegi, incluse le politiche migratorie –  per la prima volta dal 1965 i sondaggi dicono che la maggioranze degli americani, il 34 per cento contro il 28 per cento, vogliono più migranti, non meno. (Come conferma un nuovo "poll" del 1 luglio)
 
La "regolarizzazione" del 13 maggio inclusa nel Decreto Rilancio non ha cambiato le cose rispetto alla situazione critica che abbiamo catturato al momento delle nostre riprese. Se andremo a filmare nei campi, ora che il lockdown è superato, sappiamo che vedremo ancora la stessa storia. «I nostri sportelli dicono che il 90 per cento dei braccianti saranno esclusi dalla regolarizzazione» ha predetto Aboubakar. Anche se i numeri non sono chiari, e se questo è comunque un primo passo verso una possibile, graduale, regolarizzazione, è evidente che ci vorrà tempo per scardinare tutto un sistema di sfruttamento, assenza di controlli, e mancanza di trasparenza che la fa da padrone da anni, nei campi e lungo tutta la catena alimentare.
 
Ora tra Italia e Stati Uniti la situazione si è rovesciata. L'Italia ha appiattito la curva del Covid e riaprirà le scuole, mentre l'America sta collassando sotto le sue ineguaglianze, con quasi 130.000 morti ad oggi, 2,7 milioni di contagi, e picchi di oltre 50.000 nuovi casi al giorno. Ma la nostra preoccupazione per questa storia – per la condizione dei migranti senza nome e senza tetto che da anni circolano come fantasmi nel nostro Paese tanto accogliente quanto non preparato a una vera integrazione, e per la necessità di restituire trasparenza nella filiera agricola –– rimane.
 
È la preoccupazione per una storia italiana, ma anche globale, che ha paralleli e risonanze con l'America, dove 2,5 milioni di lavoratori agricoli - tra cui molti immigrati "undocumented" o irregolari dell'America Latina –– sono sfruttati nel lavoro stagionale dei campi, in California o in altri stati rurali, e sono tra i gruppi più a rischio di coronavirus. E dove la rivolta black ha raggiunto un punto di non ritorno, l'energia e la massa di un nuovo Civil Rights Movement dove, per la prima volta, a differenza del '68, neri e bianchi marciano fianco a fianco, nonostante il virus, o forse proprio per quello.
 
Ce la faranno i braccianti del mondo –– tutti i migranti, anche quelli che non possono essere etichettati come "lavoratori essenziali" –– a tirarsi fuori dall'oscurità? Gli italiani, politici e non, giovani e non, creeranno le condizioni, le leggi, le strutture, la mentalità per una politica di immigrazione più lungimirante, che garantisca il rispetto dei diritti dei lavoratori e non? Che permetta ai migranti di affittare una casa, di iscriversi all'anagrafe, di avere assistenza sanitaria, e ai loro figli di ottenere la cittadinanza? Gli italiani che consumano frutta, verdure e prodotti ambiti in tutto il mondo sono pronti a chiedere una patente del cibo, e pagare il giusto prezzo per quello che portano a tavola, senza schiacciare contadini e braccianti?
 
Le nostre domande, e il nostro documentario, restano aperti.

*Diana Ferrero e Carola Mamberto sono le autrici del documentario "The Invisibles" prodotto e distribuito dalla piattaforma globale Doha Debates.