Cannabis, fecondazione, fine vita. Parlano i protagonisti delle battaglie che allargano la partecipazione politica e mettono in crisi i partiti

«Ciao Zia, come stai?». Se una bambina bellissima e riccioluta ti salta in braccio nel bel mezzo di un congresso e se quella bambina è nata grazie a te, e si chiama Vittoria, perché quella nascita è stata il frutto di un miracolo laico, allora forse basta questo a spiegare il senso del tuo impegno.

 

La zia è Filomena Gallo, segretaria dell’Associazione Luca Coscioni (che ha tenuto il proprio congresso a Roma nel mese di ottobre) e paladina della battaglia per cancellare i divieti che oggi rendono un’odissea la fecondazione assistita; la bimba è nata da una coppia fertile ma con una grave patologia genetica, che voleva un figlio ma non voleva ereditasse la loro grave patologia.

Per la legge però solo le coppie infertili con patologie di questo tipo possono ricorrere all’indagine sull’embrione. Dopo una lunga battaglia legale, la Corte costituzionale nel 2015 ha riconosciuto tale divieto come anticostituzionale e lo ha cancellato. «Ogni anno nascono circa 800 bambini da coppie fertili portatrici di patologie genetiche. Dal 2015 ad oggi 4800 bimbi che non sarebbero mai nati che si sommano ai 67.000 bambini da fecondazione assistita», mi dice Filomena Gallo mentre Vittoria le fa le smorfiette.

 

Il mio viaggio nel composito arcipelago di associazioni e persone che ha promosso i referendum su eutanasia e cannabis, per i quali si può ancora firmare, e che saranno al centro della scena pubblica nella prossima primavera, comincia con questa piccola storia di vita perché essa contiene una grande lezione: la politica, sì la politica - perché occuparsi di migliorare la vita delle persone, renderla degna di essere vissuta comunque ciascuno decida di viverla o di abbandonarla, è politica - può riavvicinarsi alla vita, muovere energie e passioni.

 

 

Nel post-pandemia, si è visto alle recenti elezioni comunali, il movimento no-green-pass gonfia la protesta astensionista, in un esplosivo mix di populismo antiscientifico, nostalgie fasciste, pulsioni anarcoidi, rivendicando una signoria sul proprio corpo che però non si preoccupa di tutelare il corpo dell’altro che, anzi, mette a rischio con i propri comportamenti. Il fiume carsico che emerge pacificamente con oltre un milione di firme per i referendum su cannabis ed eutanasia (tralasciamo quello sulla giustizia perché totus politicus) afferma invece l’esatto contrario: il diritto all’autodeterminazione, alla signoria su di sé, è parte della cura che tutti insieme prestiamo all’altro.

 

È il corpo, dunque, al centro del conflitto politico post-pandemia. Il mondo novax e il movimento referendario sembrano quasi rappresentare i due poli opposti e alternativi di interpretarne la cura e la tutela. Dice Luigi Manconi, scrittore, sociologo, ex-senatore dei Verdi e del Pd: «Siamo nell’epoca dell’irruzione del corpo nella scena pubblica. Le persone reclamano la sovranità sul proprio corpo e sulle scelte che lo riguardano: quando chiedono di poter decidere sul fine vita, o sul consumo di droghe e persino, in modo deformato, nella protesta no-vax emerge l’intangibilità del corpo. La biopolitica oggi è al centro della scena e il corpo elettorale referendario ne diventa protagonista. Tuttavia, mentre negli Usa aborto e matrimoni gay entrano nei confronti tv tra candidati alla presidenza, da noi li definiamo ancora temi etici e cerchiamo di tenerli fuori dalla politica. Paradossalmente, pur partendo da idee che io contrasto, è stato Salvini a comprendere meglio questa fase della politica: sia quando pratica l’ostensione del proprio corpo, quasi a offrire la propria vita ai suoi sostenitori, sia quando ha chiesto e ottenuto un ministero per la disabilità».

 

 

La possibilità di votare con lo Spid, ovvero usando la propria identità digitale, che ormai usiamo per tutte le pratiche della pubblica amministrazione, ha causato un boom di firme per il referendum sulla cannabis (300.000 in tre giorni), cosa che ha sorpreso tutti e qualcuno ha cominciato a parlare di democrazia del click e populismo referendario. Nulla di più lontano dall’arcipelago di associazioni, di intellettuali, giuristi, scienziati, che costituisce l’ossatura del popolo referendario.

 

Alle firme digitali, infatti si aggiungono quelle raccolte i banchetti, frutto di un duro lavoro sul campo. Matteo Mainardi, avvocato, racconta il lungo percorso: «Prima devi depositare i quesiti, poi stampare i moduli, farli vidimare in Comune, chiedere l’occupazione di suolo pubblico per i banchetti, trovare gli autenticatori, portarle all’ufficio elettorale, consegnarle in Cassazione, attendere il verdetto della Corte Costituzionale sulla ammissibilità». Aggiunge Marco Cappato, tesoriere dell’Associazione Luca Coscioni: «Il populismo vive del rapporto diretto tra il capo e le masse, che sono coinvolte in quanto spettatori da fomentare contro il nemico di turno. La partecipazione democratica è l’esatto opposto: costruire le decisioni per creare benessere e maggiori spazi di libertà, riducendo al minimo indispensabile la concentrazione del potere».  

 

Che tipo di organizzazione ci sia dietro ce lo spiega Marco Perduca, coordinatore della campagna “Legalizziamo!”: «Ho coordinato tre generazioni di antiproibizionisti dai 35 ai 75 anni, che da anni studiano la legge e le convenzioni internazionali, capaci di mettere insieme in poche ore una rete di 60 tra associazioni e partiti. Abbiamo ideato una campagna lampo di comunicazione social sfruttando il tricolore incentrata sul “firma”!. Siamo partiti da chi era convinto e poi abbiamo allargato il giro. Abbattuti gli ostacoli burocratici, le persone hanno partecipato in massa. Era accaduto nelle piazze per l’eutanasia si è replicato online per la cannabis. Il click è un mezzo non un fine». Aggiunge Filomena Gallo: «Non siamo antipolitica, produciamo proposte per il parlamento, cerchiamo di affermare libertà nei tribunali. La maggioranza delle firme viene dai tavoli e la firma digitale arriva dopo che l’Onu ha condannato l’Italia perché non favorisce la partecipazione democratica. È una modalità nuova per esercitare democrazia e questo può fare paura soltanto a chi teme la libertà delle persone». Gongola Franco Corleone, esponente radicale e dei Verdi e storico antiproibizionista, attualmente coordinatore dei garanti dei diritti dei detenuti: «È accaduto qualcosa di straordinario. Una vera valanga per abbattere una persecuzione che dal 1990 ha mandato in carcere centinaia di migliaia di persone per detenzione e piccolo spaccio delle sostanze stupefacenti vietate. Per il semplice consumo di uno spinello oltre un milione di giovani sono stati criminalizzati e sottoposti alle angherie delle sanzioni amministrative, mentre oltre la metà della popolazione carceraria è dentro per reati legati alla droga».

 

 

E allora andiamo a guardarlo più da vicino questo popolo dei referendum. Sentiamole le voci di alcuni dei volontari che hanno animato l’estate referendaria. Di questi “nipotini” di Marco Pannella, nella prima vera campagna referendaria senza di lui che le riempiva tutte con il suo stesso corpo, mi interessa intanto capire come abbiano fatto a recepire la lezione di un leader che è l’icona delle battaglie per i diritti civili, ma così anagraficamente lontano da loro. La risposta di Virginia, coordinatrice del progetto Eumans, che promuove la partecipazione democratiche a livello europeo con petizioni popolari, proposte di legge, mozioni negli enti locali, è sorprendentemente pop: «Se ci penso il suo ricordo è legato a un brano degli Art.31 (“Ohi Maria”, un ironico inno alla marijuana, n.d.r.) a quel verso che dice: “Aspetto, intanto voto Pannella e canto”. Io ho cominciato a impegnarmi con Piergiorgio Welby, e per me questa battaglia è una delle più pure forme della politica». Dice Antonia, una studentessa dai capelli blu: «Alcune persone della mia famiglia avrebbero voluto l’eutanasia perché non volevano più vivere una vita non dignitosa e allora chi sono io per dirti quale è la vita degna di essere vissuta?». Aggiunge Jennifer, da Genova: «Mi sono fermata per la prima volta a un Gazebo dell’associazione perché mio padre era stato in ospedale per un anno e non sapevano minimante quali fossero i suoi diritti»; Cristiana da Milano: «Ho partecipato una volta a una discussione dove c’era anche un Imam e mi sembrava impossibile instaurare un dialogo su certi temi, ma alla fine ci siamo riusciti. Il nostro scopo è fornire alle persone le conoscenze per potere decidere su temi così delicati e complessi».

 

Prima di terminare il nostro breve viaggio nel popolo dei referendum, ci interroghiamo su come e perché questa vicenda interpelli il principale partito della sinistra italiana, il Pd. Enrico Letta ha provato subito a gettare il cuore oltre l’ostacolo, prendendo molto nettamente posizione su Ius Soli e Ddl Zan, ma questa dislocazione così netta nel campo delle libertà civili fa storcere il naso a molti, sia sul fronte cattolico che su quello della sinistra operaista. L’accusa è di slittare verso un partito radicale di massa più attento ai diritti che ai bisogni veri del popolo.

 

Ora, a prescindere dal fatto che personalmente riterrei un partito radicale di massa una cosa bellissima, vediamo se davvero diritti e bisogni siano contrapposti. Lo chiedo anzitutto a Manconi: «La sinistra sembra non sapersi liberare dalla cultura della distinzione tra bisogni primari, che sarebbero quelli materiali, e bisogni secondari, che riguarderebbero i diritti. È proprio un’idea razzista, come se l’operaio o il disoccupato non potessero avere il figlio gay che vuole sposarsi, o desiderare una fine dignitosa per i propri cari. Smentita per altro dalla storia. Negli anni ’70 diritti sociali e diritti individuali andarono insieme: divorzio, aborto, statuto dei lavoratori, abolizione dei manicomi furono conquistati insieme perché, pur reticente e timida, la sinistra fu parte di quel cambiamento».

 

Di timidezza parla ancora Filomena Gallo: «Non amo le discussioni ideologiche, però tutti vedono che ogni volta che la sinistra si batte per un diritto lo fa sempre al ribasso (vedi unioni civili, dove puoi unirti ma non formare una famiglia o il divieto di gravidanza solidale per altri). I divieti creano solo illegalità. La sinistra dovrebbe tornare ad avere contatto con la vita reale delle persone come quelle che chiedono cure durante la vita e dignità nella sua fine. Le libertà civili sono una terra da salvaguardare».

 

Affonda Franco Corleone: «Quando sento Verini, del Pd, dire che bisogna lottare contro la cultura dello sballo, come se lo spinello portasse inevitabilmente lì, mi cascano le braccia». Walter Verini, attuale tesoriere del Pd, sa di aver sollevato un vespaio, ma non si tira indietro, anche perché è reduce da un incontro con l’associazione Meglio Legale, promotrice del referendum: «Guardi», premette, «io sono favorevole alla depenalizzazione e legalizzazione del consumo di cannabis. E tuttavia, anche se sono stato duramente rimbrottato anche da mio figlio per quella frase, non cambio idea: il Pd, secondo me, dovrebbe votare sì, se non si riuscirà nel frattempo a varare una buona legge, ma deve al tempo stesso ribadire che le dipendenze, tutte le dipendenze, devono essere contrastate».

 

Gianfranco Carofiglio, scrittore, ex- senatore, da poco entrato, nel comitato di garanzia delle Agorà su richiesta di Enrico Letta, che vorrebbe farne un luogo di incontro con i non iscritti al partito, dice: «Questi movimenti referendari mi piacciono, anche quando non condivido al 100% le loro idee. È gente che si sporca le mani, perché sa che se tu non ti occupi di politica la politica si occuperà di te. Ho firmato il referendum sulla cannabis, ma non quello sull’eutanasia perché non mi convince la formulazione del quesito, anche se condivido in pieno la libertà di scelta. A differenza dei no-vax, i referendari rivendicano nuovi spazi di libertà che però non ledono la liberà e la sicurezza degli altri. Per me il Pd dovrebbe votare sulla cannabis un sì con allegria».