E' dal 1988 che la ratifica della Convenzione delle Nazioni Unite non si riesce a tradurre in un reato previsto dal nostro codice penale. Un testo ormai esangue che giace al Senato. Cosa accadrà ora che è caduto il Governo?

«Nel suo viso abbiamo riconosciuto tutto il male del mondo»: così Paola ?e Claudio Regeni il 29 marzo del 2016, a due mesi dall’assassinio del figlio. Ciò che i genitori avevano intravisto ?nel volto segnato (e diventato «piccolo piccolo piccolo») di Giulio, rapito seviziato e ucciso al Cairo, non era ?il male metafisico, era, piuttosto, ?il male assoluto (ontologico, direbbe ?il filosofo) e totale.

La tortura, cioè: come violenza fisica sul corpo, sull’organismo, sulle membra, sugli arti, sui genitali. E come violenza psichica: quella che attua procedure ?di degradazione per mortificare il nucleo essenziale della persona. Ovvero sfregiarne l’identità e la dignità. È un dispositivo di annichilimento - «la demolizione di un uomo», avrebbe ?detto Primo Levi - ancora praticato ?in pressoché tutti i paesi del mondo: talvolta istituzionalizzato, talvolta informale e taciuto.

In un certo numero di quei paesi, quelli che si vogliono stati di diritto, la tortura è qualificata come fattispecie penale e come tale sanzionata dall’ordinamento. Non in Italia. Nel 1988, lo stesso anno in cui nasceva Giulio Regeni (lo ha ricordato proprio sua madre) l’Italia ha ratificato la Convenzione delle Nazioni unite «contro la tortura e altre pene ?o trattamenti crudeli, inumani ?o degradanti». Ma, da allora quella ratifica non si è tradotta in un reato previsto dal nostro codice penale. Molte le ragioni di questa oltraggiosa inadempienza. Ma la prima risiede, credo, nella singolare sudditanza psicologica che la gran parte della classe politica rivela nei confronti ?delle forze di polizia, a motivo di una strampalata e fraudolenta credenza. ?

In estrema sintesi, condannare per tortura gli operatori di polizia che eventualmente si fossero resi responsabili di un tale crimine, produrrebbe due conseguenze: “colpevolizzerebbe” tutti gli appartenenti alle forze dell’ordine ?e “legherebbe” loro le mani. Si tratta ?di un’evidente sciocchezza: in un ordinamento giuridico dove la responsabilità penale è personale, sanzionare i comportamenti illegali ?di alcuni avrebbe come esito quello ?di mettere al riparo dal sospetto tutti gli altri. E sortirebbe l’effetto di “tutelare l’onore” della divisa dall’offesa arrecata a essa dai pochi che commettessero delitti.

Sono considerazioni di evidente buonsenso, che possono essere negate solo in ragione di quel sentimento di sudditanza psicologica di cui si è detto. D’altra parte, affinché la tortura sia efficacemente sanzionata e messa al bando, va ricordata la sua natura ?di violenza assoluta (un «inferno indecifrabile») e ineffabile (la nostra lingua manca delle parole per esprimerla, ancora secondo Primo Levi): al punto che l’unico obbligo di punire esplicitamente previsto dalla Costituzione si riferisce a «ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizione della libertà». Anzi, si potrebbe dire che questo è l’unico reato già puntualmente definito dalla nostra Carta.

D’altra parte, contrariamente a quanto contenuto ?nel testo ormai esangue che giace al Senato, la tortura non è un mero atto di violenza tra due soggetti. Sotto il profilo costituzionale, come scrive il giurista Andrea Pugiotto, il divieto di tortura riguarda il rapporto di potere - comunque etichettato - tra individuo e autorità pubblica. In altre parole, la tortura è ?una violenza illegale ed efferata, fisica o psichica, esercitata da chi ha la titolarità del potere legale su di me e sul mio corpo. E tuttavia l’attuale parlamento sembra incline, torpidamente, o ad archiviare per l’ennesima volta questa pratica o ad approvarne una versione ancora più misera. Per questo penso ?che, dopo ventotto anni sia preferibile pazientare ancora, augurandosi che ?un nuovo parlamento voglia riscattarsi da questo scandalo.