Si oppongono Gasparri e la destra convinta così di difendere i poliziotti. Ma è Angelino Alfano ad aver ottenuto lo stop al ddl che era a un passo dall’approvazione. «Così anche questa legislatura», dice Amnesty, «non sarà quella buona»

Luigi Zanda, capogruppo al Senato del Partito democratico, a luglio si mostrava sicuro: «Verrà approvata prima della pausa estiva», diceva. Non è stato così. La legge sul reato di tortura è stata fermata al Senato, nonostante il testo unico avesse avuto il via libera della Camera, nell’aprile 2015, spinto dall’immancabile tweet del presidente del Consiglio. «Quello che dobbiamo dire lo dobbiamo dire in Parlamento con il reato di tortura», disse infatti Renzi commentando la condanna della Corte di giustizia europea arrivata per l'Italia sui fatti della Diaz.

Mancava dunque un solo sì, che però non è arrivato prima dell’estate. E neanche dopo. Si sperava in settembre, ma niente. «Un Senato inqualificabile e infingardo», come lo definisce il senatore dem Luigi Manconi, ha prima, in commissione, modificato ulteriormente il testo, rendendo necessario, quindi, comunque un altro passaggio alla Camera. E poi lo ha bloccato. Per cui sicuramente, da qui alla fine dell’anno, tra referendum e manovra, non ci sarà tempo. E poi? L’ottimismo trova pochi appigli. Tant’è che Riccardo Noury, portavoce di Amnesty International in Italia, con l’Espresso si mostra pessimista: «Arrivati a questo punto dubito, purtroppo, che questa sia la legislatura buona».

Neanche questo parlamento, dunque, sembra intenzionato ad approvare una legge che introduca anche in Italia il reato di tortura, legge attesa almeno dal 1988. Il testo unico - che per Amnesty era comunque già «un testo di compromesso» - è fermo e non promette di muoversi presto. «A tenerlo inchiodato», dice all’Espresso Loredana De Petris capogruppo di Sinistra Italiana al Senato, «sono veti politici che vengono dalla maggioranza, non certo la navetta». «Come spesso è accaduto in questa legislatura», continua De Petris, «ci si è fatti belli con un voto alla Camera, si sono ottenuti un po’ di titoli, ma poi al Senato non si forza e si dà ragione a chi non vuole la legge: ogni volta che riproponiamo il tema per il calendario d’aula ci dicono che non vogliono argomenti divisivi».

Si dà ragione, cioè, ad Angelino Alfano, soprattutto, che sull’argomento ha fatto pesare tutto il suo ministero, chiedendo di definire meglio, ad esempio, cosa sia la tortura psciologica o cosa voglia dire “reiterazione”. Per Alfano la scelta di accantonare la legge, fatta a luglio, è infatti «molto saggia». Così come è saggio, sempre per Alfano, non far arrivare al voto la legge sul numero identificativo per le forze dell’ordine, anche quella ferma al Senato, aula da cui però è partita, ferma quindi ai blocchi di partenza. «Bisognava sospendere la discussione sul ddl tortura, e non perché siamo contrari nel merito all’introduzione di questo reato», è la precisazione di Alfano, «ma perché non possono esserci equivoci sull’uso legittimo della forza da parte delle Forze di Polizia».

Dice di voler difendere l’operatività delle forze dell’Ordine, il leader dell’Ncd, di non volergli spuntare le armi. Che è quello che dice anche Maurizio Gasparri, da Forza Italia, ma con meno giri di parole: «La legge rischia di inibire un uso legittimo della forza da parte di poliziotti e carabinieri e di chiunque sia impegnato a garantire l'ordine pubblico e la nostra sicurezza», dice il forzista. Che è sulla stessa posizione di Matteo Salvini, ovviamente. Che pure ci tiene a non passare per un fan della tortura - per carità - ma non vuole impedire ai poliziotti «di fare il loro lavoro». «Chiunque oggi», dice, «è contro la tortura ma la legge è sbagliata e pericolosa. Espone i poliziotti e i carabinieri al ricatto dei delinquenti». È contrario alla tortura, Salvini, che però nel dirsi contrario anche alla legge, in piazza con i poliziotti, a luglio tradì una certa passione: «Le forze di polizia devono avere libertà di azione assoluta», disse, «se poi un delinquente lo devo prendere per il collo e si sbuccia il ginocchio... cazzi suoi».

«Il problema», dice allora ancora Noury, «è che in Italia la tortura non esiste per definizione, perché anche i vertici della polizia non capiscono che nessuno qui vuole criminalizzare l’intera Forza ma che si tratta di circoscrivere meglio, anzi, il comportamento di singoli». «Di tortura», continua Noury, che sentiamo nel giorno in cui arriva la sentenza della Corte d’appello per il caso Mastrogiovanni, «si può parlare solo a ridosso di qualche brutto fatto di cronaca». «All’inizio della legislatura, infatti, eravamo fiduciosi», dice Noury, «ma anche questo parlamento sembra avere un approccio emozionale. Se c’è una condanna, se c’è una Genova, allora si dice che la legge è urgente. Appena poi però arriva una caso di criminalità o si verifica un atto terroristico, anche se è all’estero, ecco che la legge non ha più senso, non è più urgente. Ecco che non è più il momento».