Il poeta e musicista è l’ideatore di “Evanland”, appuntamento dove artisti, scrittori e scienziati stanno insieme: «I cattivi sono bravi a organizzarsi fra loro. Invece i buoni sono dispersivi, sono rari»

«Le persone cattive sono brave a organizzarsi fra loro. Come chi si allea per dichiarare una guerra. Invece i buoni sono dispersivi, sono rari. Ecco perché ho deciso di creare la giornata dei buoni: li voglio tutti insieme».

 

La terza pace mondiale – come qualcuno l’ha definita – scoppierà durante la seconda edizione di un festival molto originale: “Evanland” di Gio Evan, poeta e musicista che ha organizzato un appuntamento tra artisti, scrittori, scienziati, filosofi, maestri spirituali, viaggiatori e psicologi. «Ci siamo chiesti che cosa accadrebbe se, per un intero giorno, anime con lo stesso intento di percorso si dovessero ritrovare a mangiare insieme, a giocare, a confrontarsi, a dialogare e a praticare esercizi di crescita personale e di meditazione. Tutto ciò creerebbe magia».

 

Gio Evan, all’anagrafe Giovanni Giancaspro, trentacinque anni, di origini pugliesi, oggi abita sull’Appennino umbro-marchigiano da solo, in un bosco. Mi corregge: non proprio da solo, bensì «con un sacco di animali» e, quando vuole, parla con i suoi vicini contadini, con cui intavola discussioni sul meteo e su come il sole faccia bene ai pomodori. «Sono stato educato alla montagna, nonostante i miei arrivassero dal mare. E quando abiti lì, in mezzo ai monti, devi inventarti gli amici. I miei erano le querce e i serpenti di passaggio. Impari il linguaggio della natura. Difficile, poi, abituarti alla città».

 

Gio è un eremita che ogni tanto fa scorpacciate di lavoro e di persone, al termine delle quali rientra nel suo ritiro.

 

«Non è una vita senza amore. Che poi quest’ultimo ha miliardi di forme. Gli amori sanno salire le montagne. Solo i cattivi non sanno raggiungerle. La montagna ti accompagna all’introspezione, ti conduce al pensiero interiore, alla mediazione. Nella mia anima ci sono muschio, selva; quando esco, scrivo, canto, parlo e mi relaziono: porto con me lo strascico della roccia».

 

Gio Evan è sempre stato così, fin da piccolo, non si è inventato niente, forse ha solo smussato alcune rigidità. Ha smesso i panni del poeta maledetto, quello che mostra prima l’ego della sua essenza, e ha deciso di puntare al cuore della comunicazione e diventare «un poeta benedetto». Questo, in sintesi, è ciò che l’ha reso così popolare, anche sui social. Non c’è costruzione, non c’è strategia, come si può pensare, quando si vuole pensar male.

 

«Puntavo a essere felice fin da bambino. Poi ho vissuto dieci anni per strada, non quella che cantano i rapper, quella autentica del mondo, e scrivevo. Avevo una scrittura virtuosa, ricercata, e ho smesso. Oggi utilizzo il linguaggio di tutti, ovvero quello sentimentale. L’ho capito leggendo un poeta giapponese, Matsuo Basho, che ispirò questi versi: “Quando ero piccolo, volevo fare il poeta e le guance le chiamavo guance. Da ragazzo volevo fare il poeta e chiamavo le guance gote. Ora, da vecchio, voglio fare il poeta e le guance le chiamo guance”. Il mio obiettivo è sapere che ho fatto tutto ciò che potevo fare. Andarmene estremamente in pace, senza pentirmi di nulla, e costruire una zona di terra dove le persone possano riposarsi e stare bene. Un palco fisso, dove morire felice».

 

Per partecipare al Festival “Evanland” di Gio Evan, ecco le date: il 3 luglio prossimo, al Teatro romano di Ostia Antica (Roma), e poi l’8 luglio, al Carroponte di Sesto San Giovanni (Milano).