Dal 1988 lotta contro i depistaggi e l’omertà sulla misteriosa morte di suo figlio Luca. Nonostante i tentativi di delegittimarla e fermarla, non si è arresa e ora lancia un appello: «Chi sa parli». Perché sono quasi sempre i genitori a portare la croce della giustizia negata

Nel 1988 un paese lucano, Policoro, fu stravolto da un lutto. Io ero una bambina e, aggrappata alla mano di mia madre, partecipai ai funerali di due ragazzi giovanissimi, morti nel bagno di casa di lei in circostanze confuse e a oggi mai chiarite: si chiamavano Luca e Marirosa.

Non venne effettuata l’autopsia e si imputò il decesso a una folgorazione a causa del caldo bagno, poi a una presa di corrente, poi a una caldaia che avrebbe sprigionato monossido di carbonio, risultata tuttavia funzionante. Sul luogo del decesso, prima dei soccorsi, arrivarono alcuni amici della famiglia di Marirosa; i genitori di Luca furono chiamati dopo un’ora. Da allora ci fu un susseguirsi di interrogativi senza risposte, di errori giudiziari, perizie in contraddizione, testimonianze ignorate, illazioni, oltre alla scomparsa delle lettere e dell’agenda di Luca. Si parlò di omicidio, di depistaggi a causa del coinvolgimento di uomini di potere, si discusse del caso in Parlamento.

Da quel giorno si diffuse un vocio, insistente come un punteruolo sul cuore, che coinvolse la mamma di Luca: Olimpia Fuina Orioli. Restò sola in questa battaglia, senza mai arrendersi, anche se «iniziò il calvario». Olimpia venne giudicata nei modi più sprezzanti perché per alcuni non doveva indagare né fare domande, come successe a molti giornalisti che decisero di occuparsi del caso. «Solo che per una madre non è finita finché non è finita, finché non sa davvero la verità. Iniziarono a dire che ero matta. Rendermi poco credibile era un gioco che sconfissi».

Delegittimare è il primo passo per sperare di distogliere l’attenzione da ingiustizie e responsabilità. Perciò Olimpia si trasferisce a Matera, risponde a quelle intimidazioni organizzando molti convegni per raccontare gli sviluppi, le ricerche, i dubbi, denunciare le contraddizioni, anche sostenuta da cittadini, associazioni e successivamente da Libera: «Non mi avrebbero mai tappato la bocca». S’incatenò persino al cimitero per la scomparsa degli organi dei ragazzi durante l’autopsia, effettuata otto anni dopo. Sparì pure l’osso ioide, dal quale si poteva evincere finalmente com’erano le dinamiche della morte. L’ennesima circostanza mai chiarita.

Olimpia ha scritto a tutti i presidenti della Repubblica in carica in questi anni e al Papa, ha partecipato a trasmissioni televisive, conosce i documenti a memoria, ha scritto libri, collaborato alla stesura di inchieste e rivolto centinaia di appelli: «Chi sa parli, non si porti nella tomba il mio dolore. Sono passati 35 anni, ma io sono ferma a quella notte». Olimpia ha negli occhi una fiamma che non si spegnerà mai.

Come Filomena, la mamma di Elisa Claps, uccisa a 16 anni a Potenza, che in fondo aveva ragione quando nessuno le credeva. E così avviene per tanti casi, troppi, ancora oggi irrisolti. Sono i genitori a portare sulle spalle la croce di depistaggi, diffamazioni, omertà. Olimpia mi mostrò le fotografie dei cadaveri, anche se lei non le aveva mai viste. La prima cosa che ho pensato, vedendo i due ragazzi senza vita e suo figlio con evidenti lesioni, è che avevo fatto bene a non credere che una madre in cerca della verità possa essere liquidata in quel modo.

«Il mio appello è rivolto a chi quella notte cancellò la verità. Si cancella la verità se la si ritiene scomoda. Luca era un brillante studente universitario, un poeta, un figlio e un amico incredibile. Ho dedicato la mia vita a lui, alla sacralità dell’amore materno e alla lotta per un sistema più giusto. Come si può vivere senza sapere come sia morto un figlio?».