Costretto sin da piccolissimo a stare chiuso in casa per una malattia del sistema immunitario, ha iniziato a usare i colori ancora prima che a camminare. Rivelando un talento fuori dagli schemi e trasformando la paura in bellezza

«La malattia di nostro figlio è stata faticosa, ma lui ha stravolto tutto e ha trasformato la paura in bellezza». Quando Noah ha un anno, i suoi genitori Erika e Giuseppe scoprono che soffre di vasculite, una malattia del sistema immunitario. Per la sua fragilità è costretto a rinunciare all’asilo per proteggersi, più di altri coetanei, anche dalla più banale influenza. Da quel momento è un susseguirsi di ricoveri, di corse al pronto soccorso, di visite mediche settimanali, di preoccupazioni e soprattutto di smarrimento del bambino. Una pediatra offre un altro punto di vista e consiglia alla famiglia di cambiare per qualche tempo le abitudini per consentire di guardare il mondo senza stress. Ed è in quel momento più sereno che Noah inizia a gattonare intercettando una scatola di colori.

 

Qualcosa esplode nella romantica casa sui Navigli della famiglia D’Alessandro. Come un fuoco d’artificio costante, le stanze si illuminano di colori imprevedibilmente maturi, pronti come un frutto da cogliere: Noah è un artista. La mamma con curiosità prova a consultare qualche esperto d’arte e tutti concordano: c’è qualcosa di speciale nelle mani di suo figlio.

 

Dipingere diventa una liturgia e lui, così piccolo, ancora incapace di parlare, di camminare, non imbratta, non accartoccia i disegni come fanno tutti i bambini, ma crea con ordine e rispetto: plasma dal niente, abbina i colori, riempie lo spazio e produce sfumature. Quel modo di esprimersi è indispensabile, la piuma di Dumbo che gli ha permesso di volare superando un ostacolo che frena la maggior parte degli esseri umani. Quando impara a camminare danza sulla tela colorando con i piedi e ogni progresso è una scoperta da utilizzare per la sua arte.

 

Erika inizia a pubblicare alcuni scatti delle tele sul suo profilo Instagram, senza rivelare l’età dell’esecutore, e viene contattata da una gallerista che pensa appartengano a un adulto. Il quadro che richiama la sua attenzione si chiama “Marsili” in onore di un vulcano sottomarino. La curatrice della galleria americana New York Art, a Tribeca, le richiede la tela perché le ricorda l’attitudine di Jackson Pollock. Noah ha solo quattro anni ed è l’artista più giovane al mondo. Nel frattempo espone a Genova, a Milano, a Venezia, viene chiamato per effettuare esposizioni virtuali, collaborazioni con case di moda: gli mandano a casa i vestiti e lui dipinge sopra gli abiti.

 

Durante la pandemia continua a dipingere e non sembra patire la chiusura forzata in casa perché lui ha sempre vissuto protetto, quasi incurante della luce polverosa che avvolge invece gli umori degli adulti, dei suoi genitori preoccupati per il Covid. La geografia della sua libertà non ha pareti.

 

A marzo una laureanda all’Accademia di Belle Arti di Brera sceglie di parlare di Noah nella sua tesi, perché in Italia l’arte viene imposta, è un esercizio richiesto a tutti i bambini senza libertà di fantasia: un pulcino ti insegnano per forza che sia giallo. Ma per Noah non c’è una regola, ha appena riprodotto un elefante verde: è molto più rock. I professori l’hanno voluto conoscere e lui, che oggi frequenta la prima elementare sui Navigli, ha accettato perché parlare di arte è normale, una declinazione della sua normalità. Della sua magica normalità.