Si riprenda la proposta di istituire delle “Case territoriali di reinserimento sociale” per condannati con un fine pena ridotto. Col doppio risultato di abbattere il sovraffollamento e favorire il recupero dei detenuti a favore della collettività

Il carcere si manifesta sempre più come il luogo di contraddizioni e di finzioni. Dallo specchio della composizione sociale della popolazione detenuta – tolti i 740 soggetti richiusi nelle sezioni speciali del 41bis e i diecimila ristretti nell’Alta sicurezza – si riflette un’umanità dolente costituita da consumatori e piccoli spacciatori di sostanze stupefacenti vietate: stranieri, poveri, «borseggiatrici rom», come è stato detto a sprezzo di razzismo, tossicodipendenti, secondo una definizione approssimativa. Le patrie galere, per i due terzi dei 56.319 prigionieri, di cui solo 2.425 sono donne, accolgono quella che icasticamente abbiamo definito come la detenzione sociale.

Altro che il carcere come extrema ratio! E per questo luogo ineffabile si sono spesi fiumi di retorica maleodorante, imponendo slogan cattivi o fuorvianti, come «buttare la chiave» e «certezza della pena». Il carcere della dignità e dei diritti rimane una utopia, a cominciare dal diritto all’affettività e alla sessualità che resta conculcato per moralismo perbenista. E con il Regolamento di applicazione dell’Ordinamento penitenziario disatteso dopo ventitré anni dalla sua adozione.

Ha fatto bene Carlo De Benedetti, nel suo volumetto “Radicalità”, sul cambiamento necessario per l’Italia, a dedicare alcune pagine al senso della pena; anche se l’esempio di intervento proposto, cioè abbattere edifici storici come San Vittore e Regina Coeli, è sbagliato, oltre che improponibile per i vincoli di tutela culturale. Non abbiamo bisogno di un ennesimo piano carcere, ma di una riforma profonda. D’altronde sappiamo tutto in termini di analisi almeno dal 1949, quando Piero Calamandrei dedicò un numero speciale della rivista “Il Ponte” a una inchiesta sulle carceri e sulla tortura ed Ernesto Rossi scriveva un pezzo intitolato “Quello che si potrebbe fare subito”, il quale conserva un’attualità disarmante.

Il centro di gravità permanente, per dirla con Franco Battiato, dovrebbe rimanere l’articolo 27 della Costituzione con il precetto del reinserimento sociale dei condannati (anche se il sottosegretario alla Giustizia, Andrea Delmastro, ne ha proposto uno stravolgimento). Come lo si può realizzare?

Ho elaborato un’idea suggestiva riprendendola da un testo di Sandro Margara, che nel 2005 fu riversato in una proposta di legge presentata da Marco Boato. È una sperimentazione davvero originale: istituire delle “Case territoriali di reinserimento sociale” utilizzabili dalle persone con un fine pena sotto i dodici mesi (sono 7.259 soggetti; di questi, 1.471 hanno avuto una condanna sotto un anno, come denunciato dal garante nazionale Mauro Palma).

Penso a piccole strutture, da cinque a 15 posti, dirette dal sindaco della città ospitante, senza polizia penitenziaria e con una presenza significativa delle associazioni del terzo settore e di educatori. Come ha dichiarato il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, non sarebbe conveniente l’evasione. Peraltro ricordo che una realtà simile era presente fino a trent’anni fa con oltre 200 case mandamentali riservate ai condannati a pene brevi irrogate dal pretore. Mi auguro che la proposta sia raccolta dal Parlamento. Col doppio risultato di abbattere il sovraffollamento e favorire il reinserimento attraverso le relazioni in una comunità.