Il sacerdote di Casal di Principe, ucciso nel 1994, fece sue le parole di condanna usate 40 anni fa dai vescovi campani contro la criminalità organizzata. E non abbassò lo sguardo

Si girò di scatto al suono acre delle parole del sicario e non ebbe nemmeno il tempo di capire che, immediatamente, cinque violentissimi colpi fecero versare sangue nella sacrestia della sua chiesa a Casal di Principe. Erano trascorsi quasi dodici anni da quando la Conferenza episcopale campana, nel 1982, aveva diramato un duro documento contro la camorra. E forse la colpa di don Peppe Diana era stata anche quella di riprendere, assieme ai sacerdoti della Forania di Casal di Principe, il contenuto di quel documento dal titolo “Per amore del mio popolo non tacerò”.

 

Uccidendo don Diana si volle colpire chi, con i fatti e il coinvolgimento dei giovani, denunciava continuamente il disfacimento delle istituzioni civili, che consentiva l’infiltrazione del potere camorristico, chiedendo un’analisi sul piano culturale, politico ed economico capace di abbattere il muro di omertà e silenzio che in quegli anni si ergeva nell’intero Agro aversano.

 

Erano anni cupi quelli in cui la faida interna alla camorra aversana germogliava morti ammazzati per il controllo delle estorsioni e delle tangenti, che creava facile ed effimera ricchezza attirando i giovani in balia di una disoccupazione galoppante.

 

Sono passati 40 anni dal documento della Conferenza episcopale campana e per celebrare tale decorrenza quest’ultima, presieduta da monsignor Antonio Di Donna, si è nuovamente riunita ad Aversa.

 

Ancora una volta — davanti a un fenomeno criminale che ha completamente modificato il modo di atteggiarsi scegliendo di non mietere più vittime per strada, ma di praticare percorsi d’infiltrazione criminale nelle istituzioni, gestendo fette di economia e appalti in tutto il Paese — la Chiesa si interroga sulla dimensione sociale della fede e sulla necessità di tener presente che per essere buoni cristiani non ci può essere distanza dai peccati contro la giustizia quali l’evasione fiscale, la facile corruzione, l’assenza dello spirito di servizio negli operatori sociali, l’indifferenza verso il bene comune.

 

È un nuovo appello, un rinnovato grido di dolore che la Chiesa rivolge al suo interno e al suo esterno, consapevole però di non poter supplire a un necessario impegno di tutti, dalla società alle istituzioni, dalla politica alla scuola, dalle famiglie alla magistratura.

 

Sulla mia pelle di cittadino dell’Agro aversano ho imparato che non vi è possibilità di lasciare vuoti, per cui è il quotidiano impegno di tutti che diventa motore propulsivo per superare il silenzio e l’indifferenza verso il male criminale.

 

Se vogliamo tenere a distanza queste nuove e pericolose iniziative criminali è necessario continuare il lavoro incessante di contaminazione dei giovani con valori di legalità diffusa, il che significa predicazione laica dei diritti fondamentali su cui si basano la Libertà e la Bellezza.

 

Una predicazione nelle scuole, nelle università, nelle associazioni, nella politica, nelle famiglie che possa generare quel senso di appartenenza al bene comune che, se non protetto, viene stritolato nel malaffare criminale.

 

Ancora una volta la Chiesa si interroga e ci interroga. A noi spetta dare una risposta perentoria e immediata sulla scia della continuità di quanti hanno scelto di non abbassare lo sguardo e lottare per il Futuro della nostra terra e delle nuove generazioni.