Opinione
Il reddito di cittadinanza dà fastidio a una classe dirigente ferma all’Ottocento
Il sostegno al reddito ha sottratto alla povertà assoluta un milione di persone. Ma nel nostro Paese continua a essere attaccato dalle destre (e non solo)
La crisi del governo Draghi, al di là dei modi e delle forme in cui si è espressa, ha riportato all’attenzione del dibattito pubblico alcune emergenze sociali ed economiche del Paese: i salari che non crescono, l’inflazione che ne erode il potere d’acquisto, la povertà diffusa anche fra chi lavora. In un Paese come l’Italia, l’unico in Europa dove i salari reali sono diminuiti dagli anni Novanta, si è cominciato anche a ragionare del salario minimo, un dispositivo esistente in altri Paesi europei e che potrebbe, a certe condizioni, evitare le forme più esose di sfruttamento del lavoro. Tra le misure più discusse spicca però il Reddito di cittadinanza, introdotto dal primo governo Conte, una misura oggi strenuamente difesa dal Movimento 5 Stelle e altrettanto duramente attaccata dalle destre.
Se è sicuramente legittimo chiedersi quali siano i reali effetti del Reddito di cittadinanza (l’aumento dei salari o viceversa la loro diminuzione, in corrispondenza con la diffusione del lavoro nero), come pure domandarsi quale sia la sua efficacia nel contrasto alla povertà in presenza di truffe e irregolarità nell’assegnazione dei sussidi, non si possono tuttavia negare due circostanze. In primo luogo, la misura in questione ha introdotto per la prima volta un sostegno universale al reddito, in sintonia con i principi costituzionali di dignità e uguaglianza sostanziale tra i cittadini. In secondo luogo, i dati ci dicono che, almeno in parte, la misura ha funzionato. Il Rapporto annuale dell’Istat, presentato a Montecitorio l’8 luglio, ha dimostrato infatti che gli strumenti di sostegno al reddito erogati nel 2020 – incluso il Reddito di emergenza introdotto dopo lo scoppio della pandemia – hanno avuto un ruolo non secondario nella riduzione della povertà. Le somme erogate, secondo l’Istat, hanno permesso a un milione di individui (in 500.000 famiglie) di non trovarsi in condizione di povertà assoluta, con effetti più rilevanti tra i disoccupati e nelle regioni meridionali. Per avere un’idea delle proporzioni, uno sforzo finanziario cinque volte maggiore avrebbe – in linea ipotetica – azzerato interamente il problema.
Nonostante questi fatti, voci tutt’altro che disinteressate, e non da oggi, continuano a chiedere con insistenza l’abolizione del Reddito di cittadinanza, considerato uno sperpero di risorse pubbliche e un disincentivo al lavoro. A lamentarsi non sono solo gli imprenditori della ristorazione o del settore alberghiero, convinti che i sussidi siano un incentivo all’ozio e una minaccia per la redditività della loro impresa. Stando a quanto emerso da alcune indagini sui nuovi fatti di mafia a Palermo (in particolare l’inchiesta sul recente omicidio di Giuseppe Incontrera) anche i boss cittadini sembrerebbero fortemente ostili al provvedimento: renderebbe faticoso trovare “picciuttieddi”, ovvero giovane manovalanza disposta allo spaccio di droga e ad altre attività illecite pur di sfuggire alla miseria.
Se a lamentarsi del Reddito c’è anche la mafia, forse ce ne sarebbe abbastanza per prendere un po’ più sul serio questa misura, per quanto imperfetta. Tocca purtroppo constatare che una parte della nostra classe dirigente sembra ferma al dibattito dell’Inghilterra di inizio Ottocento, agli albori della rivoluzione industriale, quando la nascente scienza economica, portavoce degli interessi della borghesia imprenditoriale, prendeva di mira il vecchio sistema delle Poor Laws inglesi, accusato di impedire la formazione di un vero mercato del lavoro, mantenendo in condizioni di oziosità legioni di poveri che, spinte dalla fame, avrebbero potuto sostentarsi attraverso il loro lavoro.
Attendiamo con fiducia che il dibattito pubblico possa evolvere almeno verso le categorie novecentesche del Welfare State.
Manfredi Alberti è ricercatore di Storia del pensiero economico. Dipartimento di Scienze politiche e delle relazioni internazionali. Università degli studi di Palermo