Il Sud. I ragazzi fra i 18 e i 24 anni. E le persone al bivio di un licenziamento prima della pensione. Un’indagine esclusiva rivela le categorie più colpite dall'aumento del divario

Un nuovo sguardo allo slittamento in corso nel Paese. Una foto inedita della crepa aperta al centro della società.  Sono i dati elaborati dall’Istat per L’Espresso, pubblicati in queste pagine, che evidenziano come sono cambiate le disuguaglianze in Italia nelle diverse regioni e nelle differenti classi di età, dal 2004 al 2016. Più che un’evoluzione, queste statistiche fanno affiorare un’involuzione. Certificano cioè l’aggravarsi del divario fra chi ha e potrà avere, e chi non ha. Mostrando come il problema abbia solo sfiorato, per ora, alcune categorie, mentre ne ha già gravemente penalizzate altre. Soprattutto i giovani. Le regioni del Sud. E le persone attorno ai 55 anni. Parti di popolazione che si stanno separando a una velocità cui la politica risponde in ritardo.

Innanzitutto, il metro. L’indicatore considerato qui per misurare la febbre alla malattia del secolo, la distribuzione ineguale della ricchezza, è “l’indice di disuguaglianza del reddito disponibile”. Si tratta di un valore utilizzato come riferimento per valutare il benessere economico della popolazione dall’Unione europea, dall’Ocse e dall’Istat. Definisce la distanza fra i più ricchi e i più poveri, come il divario che separa il 20 per cento della popolazione con il reddito più alto dal 20 per cento con quello più basso.



Nel calcolare di quanto si sia spalancata la forbice della ricchezza nel nostro Paese, la serie dell’Istat mostra ad esempio come in alcune regioni del Sud, Calabria e Sicilia in testa, i cittadini che si trovano al seminterrato della piramide sociale non riescano ormai nemmeno a intravederli, i fortunati ai piani alti. L’indicatore della disuguaglianza, in queste due regioni, è infatti oggi superiore a quello registrato all’interno di Paesi come Romania e Bulgaria. Ed è aumentato dal 2008 in poi.

Nello stesso periodo si è fermato l’ascensore dei redditi anche nel Lazio: la regione della capitale di Stato è diventata il quarto territorio d’Italia per gap fra ricchi e poveri. «Mentre al Nord i benefici della ripresa sembrano essere stati distribuiti meglio fra i residenti, in molte regioni del Sud la distanza aumenta», spiega Massimo Baldini dell’Università di Modena e Reggio Emilia: «Solo poche famiglie, in questi territori, partecipano allo sviluppo. Se il dato del 2016 verrà confermato dalle indagini future, sarà definitivamente assodato che siamo di fronte a una ripresa solo per alcune fasce della popolazione, quelle già solide. Insomma, che piove sul bagnato». 

Questa deformazione nell’accesso al futuro riguarda tanto la geografia territoriale quanto quella sociale. E anagrafica. «Dopo la crisi», dice Salvatore Morelli, ricercatore del Graduate Center della City University di New York (dove collabora con uno dei massimi esperti mondiali della materia, Branko Milanovic), «in Italia i redditi da lavoro dipendente e autonomo sono crollati, mentre le entrate garantite dalla proprietà di immobili, o dalle pensioni, sono rimaste più o meno stabili. I pensionati così hanno guadagnato terreno in termini relativi, mentre i lavoratori hanno perso». Giovani fragili da una parte, padri rimasti un po’ più protetti dai traumi economici dall’altra. È il nuovo conflitto generazionale. Con l’unico welfare rimasto, spesso: quello famigliare. Genitori accanto ai figli oltre i 30 anni.

L’allarme arriva anche dal Fondo monetario internazionale, che in una nota appena pubblicata scrive: «Il rischio di povertà fra i giovani, in Europa, sta aumentando. Rispetto al 2008 la possibilità di scivolare sotto la soglia della povertà per gli over 65 è diminuita drasticamente, mentre per i ragazzi dai 18 ai 24 anni è cresciuta». Prima della scossa, la possibilità di ritrovarsi poveri colpiva in modo simile entrambe le fasce d’età. Ora la popolazione sotto i 34 anni possiede meno del cinque per cento della ricchezza del continente. L’Occidente sembra aver dimenticato in cantina i suoi figli. Negli Stati Uniti risaliti dallo shock economico, il reddito medio degli over 75 è cresciuto del 40 per cento dal 2013 ad oggi, «mentre quello delle famiglie con meno di 35 anni è aumentato soltanto del 12», ricorda Morelli.

Quanto il nostro Paese ricalchi il quadro europeo lo spiegano Andrea Brandolini, Romina Gambacorta e Alfonso Rosolia in un saggio intitolato mestamente: “Disuguaglianza nella stagnazione: l’Italia nell’ultimo quarto di secolo”, che sarà pubblicato a breve in un volume della Oxford University Press. La crisi della distribuzione della ricchezza, spiegano gli autori, è stata una scossa violenta in Italia all’inizio della recessione degli anni ’90. Allora ci fu uno smottamento dalla classe medio-bassa alla povertà. Da quel momento in poi, però, spiegano gli autori, gli indici sembrano rimasti stabili.

Tanto da portare i ricercatori a dire: «Non c’è evidenza di uno schiacciamento della classe media, in termini di reddito, preoccupazione invece ricorrente nel dibattito in Italia». La stabilità nasconde però delle debolezze altrettanto profonde e aumentate in questo periodo. Riguardano, concludono gli autori, le famiglie di immigrati, rimaste ai margini della distribuzione di ricchezza, e «i divari tra giovani e anziani».

Ora, il bivio fra chi ha una prospettiva solida, chi potrà accumulare, cioè, avere possibilità di spendere, risparmiare, scegliere, e chi invece si vede sottratti ogni volta nuovi pezzi di orizzonte non separa solo i giovani dagli adulti. Ma anche i giovani dai giovani. Si sta ampliando infatti anche il divario fra coetanei, come mostrano i dati presentati in queste pagine. Cresce cioè anche la disuguaglianza all’interno della stessa classe d’età, soprattutto per chi ha dai 18 ai 24 anni. «L’ingresso nel mondo del lavoro avviene attraverso impieghi poco pagati o part time, sottoposti a una pressione verso il basso dei salari che è maggiore in Italia rispetto al resto d’Europa», commenta l’ex ministro Enrico Giovannini, ordinario di statistica economica a Tor Vergata, ora portavoce della “Alleanza Italiana per lo sviluppo sostenibile”: «Poiché nel nostro Paese poi la scala dell’aumento del reddito è molto più legata all’anzianità che non al merito, sarà difficile per i ventenni di oggi superare il gap». Quanto tempo sarà necessario per stringere il divario? Per colmare cioè il vantaggio che può esercitare oggi a 20 anni chi ha ereditato un capitale di partenza, con le relative chance, rispetto a chi deve crearsi una ricchezza in un contesto in cui diventa sempre più difficile fondare il proprio futuro sui propri redditi? In un sondaggio Ipsos, pubblicato nel 2017 e basato su oltre 18mila questionari raccolti in 22 Paesi, il 71 per cento dei francesi ha detto che i ragazzi avranno una vita peggiore di quella dei loro genitori. In India sono pessimisti solo in due su 10. In Italia, lo è il 48 per cento della popolazione.

La distorsione dell’accesso al futuro non riguarda solo i salari. «In tutto il mondo stiamo assistendo a una polarizzazione del lavoro», spiega Emilio Reyneri, professore emerito di Sociologia all’università Bicocca di Milano. Ovvero una riduzione della cintura media di impiegati, operai, commercianti o artigiani - in via d’estinzione - a favore di una “fascia alta”, di tecnici e operai specializzati o esperti, e di una “fascia bassa” di mansioni a bassa produttività e basso valore aggiunto». Continua Reyneri: «Solo in Italia, e in Grecia, fra i Paesi sviluppati aumenta maggiormente l’offerta nella fascia bassa». Logistica, terziario, magazzini e centri commerciali, micro-imprese, o aziende che faticano a investire in innovazione. «Contrariamente a quanto sostiene l’opinione più diffusa, il cuore del problema è questo, in Italia: più che il lavoro instabile, il cattivo lavoro disponibile». Risultato: «Abbiamo pochi laureati. Ma ancor meno posti di lavoro qualificati», conclude Reyneri, «e quanti non si adattano ad abbassare le aspettative che fanno? Emigrano».

È un’ipoteca sul futuro del Paese. Sulle nuove generazioni, la loro possibilità di crescere. E le risposte della politica sembrano girare a vuoto. «In Italia si parla quasi esclusivamente di interventi contro la povertà, come è avvenuto per il reddito di inclusione, introdotto di recente. Sono misure utili, certo, ma non avranno un impatto molto forte», commenta Maurizio Franzini, professore di economia politica alla Sapienza di Roma e fra gli autori pochi mesi fa di un “Manifesto contro la disuguaglianza” pubblicato dalla rivista “Etica ed Economia”: «Per riequilibrare i redditi bisogna alzarli a chi sta in basso. Prendendo le risorse dove? Certo è impopolare dire che bisogna frenare chi sta al top, ma è così». In campagna elettorale al contrario vanno forte le proposte di flat tax.

Ma la bilancia è già rotta: a metà 2017, ha denunciato Ofxam pochi giorni fa, in occasione del vertice finanziario di Davos, in Svizzera, il 20 per cento più ricco degli italiani deteneva oltre il 66 per cento della ricchezza.
La mancata redistribuzione della ricchezza non è il solo ostacolo a una maggiore equità. «Soprattutto per i giovani, pesano anche le differenze all’accesso nei percorsi di istruzione, e quindi di sviluppo del capitale umano», continua Franzini: «Così come la frammentazione dei contratti», che a parità di merito porta a destini separati per redditi e garanzie riconosciute. Almeno il Jobs act è servito ad appianare le differenze? «Assai poco. Ha distribuito incentivi, sì, ma temporanei. E non ha ridotto, anzi amplificato le opzioni contrattuali».

Per cambiare rotta, servirebbero investimenti. In ricerca, istruzione, ammortizzatori sociali capaci di bloccare la spirale negativa del mercato del lavoro, riprende Giovannini. Ma ci si ferma sempre al muro delle “politiche attive”, banco di sabbia per qualsiasi misura di sostegno al reddito in Italia. «Quando ero ministro facemmo un primo censimento dei centri per l’impiego, gli uffici che dovrebbero aiutare i disoccupati a trovare nuovi percorsi: abbiamo in tutto un decimo dei dipendenti dedicati a questo in Germania. E la riforma si è bloccata con il referendum», per l’incertezza tra chi dovesse tenere in mano le leve del comando fra lo Stato, le Regioni e le Province. È rimasto tutto fermo. «Così continua a mancare welfare per chi è ai margini», o proprio fuori dal sistema pensionistico.

Lo dimostra l’altro dato che percorre queste pagine. Se i pensionati sono stati più protetti dagli assegni o dai risparmi, in questi anni, non è andata così per coloro che si trovano al guado dell’età. Chi ha fra i 55 e i 59 anni, infatti, sta percorrendo oggi binari sempre più divergenti rispetto a dieci anni fa. «Da un lato c’è chi è stato costretto a rimanere al lavoro dalle riforme, ma ha continuato comunque a percepire uno stipendio», spiega Brandolini: «dall’altro chi ha perso il posto a causa della crisi e non è potuto andare in pensione». E nemmeno rientrare nel mercato, se non a fatica, o accettando retribuzioni molto inferiori alle precedenti. Scoprendosi così precario, e diseguale, alla vigilia dei sessant’anni.

Per concludere con almeno una nota positiva, i milionari italiani, certifica l’ultimo rapporto targato Crédit Suisse sui paperoni globali, sono aumentati, arrivando a un milione e 288 mila nel 2017. In alto 138 mila flûte in più.