Conte e Salvini risfoderano il linguaggio demagogico per giustificare le loro manovre

L’invocazione del popolo è l’ultimo must della politica populista nostrana. Un eterno ritorno e nulla di nuovo, verrebbe (opportunamente) da dire. Eppure, ultimamente, il riferimento d’obbligo per qualunque populista in servizio permanente effettivo sembrava un po’ negletto e trascurato. A fare da denominatore comune a questa rentrée del popolo nel discorso pubblico nazionale sono le critiche e i distinguo a ogni piè sospinto che i populisti di governo - che pure sarebbero parte della maggioranza... - indirizzano all’operato di Mario Draghi. Contro il quale si levano le proteste della «nostra base che è già con un piede fuori» (Giuseppe Conte) e dei «militanti» (Matteo Salvini), che i leader dicono di non potere, e non volere, più frenare. Si è diffuso un forte «disagio» nella «comunità politica» (Conte) e, pertanto, è stato sfoderato tutto il catalogo delle “armi”, dalla dura «guerriglia parlamentare» (Salvini) al punto di non ritorno: in parole povere, la prospettiva del «Papeete 2.0». Ed è così ricomparsa - a proposito di “scongelamenti” e riemersioni - la spiccata inclinazione neopopulista per la campagna elettorale permanente.

 

Ancora una volta, è il paradosso - elemento strutturale della politica postmoderna, specialmente in un Paese quale l’Italia che dell’eccezione ha fatto la consuetudine - a farla da padrone. Perché tale è la narrazione proposta da leader che si ritrovano a evocare i loro follower per legittimare il conflitto con il governo dentro cui siedono.

 

Certo, si tratta per alcuni versi del paradigma della «following leadership», anch’esso tipico del neopopulismo che si avvale largamente della disintermediazione e monitora costantemente i sentiment più diffusi presso l’opinione pubblica per riproporli, con un effetto megafono, come parole d’ordine su cui chiedere voti. Ma qui c’è qualcosa d’altro, che va oltre il mantra di quelle che il sociologo Benedict Anderson aveva chiamato le “comunità immaginate”.

 

Adesso, cambio di scena, i capi populisti si fanno scudo dei propri più circoscritti “popoli”, ovvero le constituency organizzative e i bacini elettorali. Difatti, se il concetto di comunità politica in senso moderno affonda l’origine nel Romanticismo delle lotte per l’indipendenza nazionale, dal XX secolo si rivela inseparabile dall’idea - in senso lato - di “interesse”. E, dunque, possiamo parlare di comunità-stakeholder, economiche, territoriali e simboliche (dal momento che gli scontri tra i partiti si combattono sempre di più a colpi di “politica dell’identità”, come da ultimo mostrano lo Ius scholae e la legalizzazione della cannabis).

 

Nel documento-diktat recapitato da Conte al premier, si trovano le issues dei portatori di interessi Cinque Stelle: la residua base protestataria, i nostalgici dell’ortodossia delle origini, i percettori di reddito di cittadinanza e altri beneficiari che hanno alimentato la rete di clientele del Movimento. Mentre l’agitazione salviniana vuole dare voce, accanto ai vari elettori vicini al «novaxismo-putinismo» (e fin da subito ostili a Draghi), anche alle partite Iva e ai lavoratori che più subiscono sofferenze da questo stato di crisi permanente, sebbene il governo sia attivamente impegnato nel cercare di lenire la drammaticità dell’attuale contesto socioeconomico.

 

Un segnale di come, tra pandemia e guerra in Ucraina, i partiti populisti in Italia, ma non soltanto (nel Regno Unito la caduta di Boris Johnson obbliga il Partito conservatore a cercare altre strade e, su un piano differente, l’assassinio di Shinzo Abe in Giappone costituisce la sanguinosa chiusura di un’altra stagione politica di populismo), siano in cerca di riconfigurazione.

 

Col rischio (anche) dell’arrivo di un’offerta politica di nuovi soggetti iperpopulisti, in una logica di “overdose” ed escalation.