L’intervento
«Ci sono troppi detenuti con pena breve: per loro il carcere non è la soluzione»
Nel nostro paese sono 3.700 i reclusi che scontano meno di due anni. Si tratta di un tempo vuoto, fatto di nulla, e senza alcuna possibilità di reinserimento. La denuncia del garante
Al 6 giugno 2022 erano 3.783 le persone detenute in carcere per una pena inferiore ai due anni: circa il dieci per cento di coloro che nel nostro Paese sono in carcere con sentenza definitiva. Di questi, 1.314 devono scontare una pena inflitta inferiore a un anno. Sono due dati tra quelli che verranno analizzati più compiutamente dal Garante nazionale nella sua annuale relazione al Parlamento il prossimo 20 giugno, che concentrerà la sua attenzione sull’ampia tematica del tempo della pena e che verrà trasmessa in diretta su Raitre dalle ore 11.
Il periodo percorso in esecuzione di una sentenza penale, pur nell’intrinseco limite della privazione della libertà e del conseguente rischio di desocializzazione, può essere pieno e costruttivo, fatto di recupero dell’istruzione o di un suo nuovo sviluppo, di attività volte al positivo reinserimento nella società. Oppure può essere vuoto, fatto di niente che non sia il lento scorrere delle ore, dei giorni, dei mesi. Nel caso delle pene brevi il tempo trascorso in carcere fa parte certamente di questa seconda categoria. È infatti difficile dare un senso a periodi così limitati, quando per elaborare un qualsiasi progetto di recupero occorre un’osservazione di mesi e una pianificazione di anni.
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Così il tempo vuoto non è solo inutile e deleterio ma trasforma la finalità rieducativa che la Costituzione assegna alle pene in una velleitaria enunciazione.
Analizzando le storie personali e le caratteristiche sociali di chi è in detenzione per scontare una pena così breve emerge spesso un quadro di marginalità: reati sempre simili a sé stessi, impossibilità di accesso a misure alternative, assenza di tutela legale effettiva o di supporto di qualsiasi tipo, mancanza di istruzione minima. Una condizione che prefigura un’esistenza che pendola tra brevi periodi di libertà e nuove detenzioni in carcere, esperienze di vita che contraddicono il luogo comune di chi invoca il carcere come unica possibile sanzione per dare più sicurezza alla comunità. Una situazione che genera infatti ulteriore marginalità e nuova illegalità.
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Interviene poi un altro e non meno importante fattore: quello dell’indigenza di molte persone detenute, quelle che meno attraggono l’attenzione della cronaca centrata quasi sempre sulla grande criminalità e i delitti che fanno scalpore. Chi sta in carcere per una pena così breve è, per esempio, una persona che non può ottenere la detenzione domiciliare perché una casa non ce l’ha. L’assenza di reti sociali di supporto fa così traballare l’assunto su cui si basa il nostro vivere comune e che è esplicitato nelle parole che sovrastano ogni Corte, quello secondo cui la legge è uguale per tutti. L’incapacità nel territorio di intercettare queste vite ai margini prima che sconfinino nel reato e l’altrettanta incapacità di prevedere una rete ove realizzare percorsi alternativi, finiscono col far ricadere le contraddizioni irrisolte sia sul carcere (vedi alla voce sovraffollamento) sia sulla collettività che si percepisce come meno sicura.
Il carcere non può risolvere tutto, specie quando manca il tempo per farlo. Né la soluzione può essere «costruiamo altre carceri» senza uno sguardo al contesto sociale e al percorso rieducativo delle persone recluse. Occorre una prospettiva differente e la creazione di nuove strutture comunitarie che mantengano la doverosa necessità sanzionatoria ma che allo stesso tempo lavorino per la sicurezza nel lungo termine. Luoghi che possano accogliere anche chi è alla fine di un percorso detentivo più lungo e che deve fare i necessari passi per tornare a vivere fuori. È tempo di trovare il coraggio e la visione per intraprendere questa strada.
Mauro Palma è garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale