In un dibattito italiano che anche intorno alla guerra in Ucraina ha dato il suo peggio, le iniziative come “Pace proibita” organizzata da Michele Santoro sono lodevoli. Ma anche questa volta è mancata la risposta al quesito più importante

L’opinione pubblica italiana si merita i politici che ha e sta vivendo l’invasione dell’Ucraina da parte dei russi con la stessa garrula incoscienza di ogni nostro dibattito. Specie sui massimi sistemi. Si prendano come esempio le elezioni: alle Europee si vota mediamente così, a cazzo di cane, convinti come siamo che non servano pressoché a nulla. Le Politiche un tempo erano più incentrate su una certa concretezza, fossero alti ideali o basso clientelismo. Ma oggi anche lì si va allo stadio, si sceglie la curva, ivi condotti dall’informazione tutta. Quella mainstream, o quella che «non ce lo dicono», quasi sempre perché quello che non ci dicono è una colossale sciocchezza o una patente, e interessata, bugia. Alle Amministrative, ecco il sussulto. Scegliere chi ti rattoppa le buche o assume il cugino in Comune vale una preferenza ragionata.

 

Espressa la quale, si corre subito sui social a lamentarsi dello scandaloso mercimonio elettorale, specie se non ti hanno assunto il cugino. Così, a leggere qualunque combinazione di lemmi e punteggiatura che attenga al conflitto, sembra impossibile uscire dagli opposti estremismi. Da una parte, chi vede l’opzione militare come unica via, doterebbe Kiev dell’atomica, e insieme alle feste ormai santifica anche le mogli del battaglione Azov: un genere televisivo tipo “desperate housewives”, ma con una svastica sullo sfondo. Dall’altra, quelli che è colpa dell’Occidente, della Nato, di ‘sti ucraini che insistono a resistere. Talvolta, non sempre, con un grido di battaglia a cui posporre le contumelie verso Zelensky e compagnia: «Premesso che c’è un invasore e un invaso…». E giù botte. L’altra sera Michele Santoro ha raccolto su un palco romano un nugolo di facce a me care, da Marco Tarquinio a Fiorella Mannoia, da Ascanio Celestini a Emily Clancy, e altre meno care, per parlare di Pace Proibita, e gli va subito riconosciuto un merito: nessuno ha pronunciato la premessa di cui sopra. Nessuno si è perso in distinguo pelosi alla Giuseppe Conte sul calibro dei proiettili da inviare.

 

Nessuno ha minimamente, se non per brevi accenni, ceduto alla facile tentazione di rappresentare il punto di vista degli ucraini e della loro agonia. Tutti, nessuno escluso, hanno cercato di dare una risposta alla domanda che i pacifisti come me, che lo erano anche ai tempi di Bush junior e senior, si pongono ogni giorno: come si fa, la pace? Ho aspettato tre ore ascoltando cose che sapevo: la Nato che dopo la caduta del muro si è espansa dopo aver promesso di non farlo, gli accordi di Minsk non rispettati, la guerra a bassa intensità che vige in Donbass dal 2014, le altre guerre del mondo, diverse clamorose omissioni, qualche analisi che sarebbe stata bene su un blog complottista. Purtroppo però, e alla fine è la sola cosa che mi spiace, senza ironia, nessuno ha risposto. Forse perché molti hanno citato l’unica figura unificante di questi giorni divisi: il Papa. Il quale, il giorno dopo, ha detto che «questa guerra è il campo in cui testare le armi che produciamo». Troppe. Ma ha anche aggiunto che nemmeno lui sa se gli ucraini debbano usarle o no. A ‘sto punto, per fare la pace, non ci resta che seguirlo su un campo in cui se la cava senz’altro meglio di noi. Preghiamo.