La Russia punta sulla forza militare, gli ucraini sul consenso. Mentre l’Europa si ritrova priva di entrambe queste “armi”

Il potere costringe, orienta e, nella modernità - come ha evidenziato Michel Foucault -, «dà forma» ai soggetti. Da che mondo è mondo la guerra rappresenta un mostruoso regolamento di conti per stabilire chi comanda, estendendo il proprio potere oppure contenendo quello altrui.

 

Ora che dobbiamo assistere al suo ritorno sul suolo europeo, a seguito dell’aggressione contro l’Ucraina, sembra di venire proiettati in un’altra dimensione. O, per usare una parola di moda, in un multiverso a tutto spiano, perché è come se la sporca guerra di Putin intersecasse e facesse entrare in cortocircuito piani temporali differenti. Questa sovrapposizione di livelli diversi, oltre che di visioni del potere (e del mondo) antitetiche, emerge nitidamente se si guarda al conflitto in corso attraverso le note lenti interpretative del politologo (e diplomatico) statunitense Joseph Nye. Quelle di hard power (il potere coercitivo) e di soft power (quello persuasivo e attrattivo) a cui, negli anni Dieci del Duemila, lo studioso ha affiancato la categoria di smart power, una miscela delle due precedenti, alla luce delle radicali trasformazioni generate dalla rivoluzione digitale. E, dunque, la battaglia per lo smart power si svolge principalmente intorno al controllo del cyberspazio.

 

L’imperialismo putiniano ha scoperchiato il vaso di Pandora, non visibile così chiaramente prima, della compresenza di strumenti di lotta per l’egemonia tra loro difformi dispiegati nel corso dello stesso momento storico. L’esercito russo ricorre all’hard power della classica potenza militare (peraltro, tecnologicamente meno progredita di quanto si supponesse prima del divampare del conflitto), simboleggiata dai carri armati che calpestano il suolo dell’Ucraina. Ma da almeno un decennio utilizza anche con notevole efficacia lo smart power della guerra ibrida, della diffusione di fake news e del disordine informativo, delle interferenze maligne degli hackers e della propaganda digitale, riuscendo, tramite i social media, nell’impresa di condizionare larghi settori delle opinioni pubbliche occidentali.

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Gli ucraini usano il soft power della loro causa quale battaglia per i valori della democrazia e della libertà mediante una comunicazione assai avanzata, e lo smart power di tecnologie belliche più sofisticate e “leggere” di quelle dei russi (come i droni di maggiore efficienza forniti dalla Nato, e una catena di comando militare meno gerarchica di quella “sovietico-zarista” degli invasori). E se i russi stanno smarrendo il soft power costruito nel passato a colpi di cultura, “amicizia” molto interessata, rapporti commerciali (intrisi anche di corruzione), finanziamenti a pioggia, offerta di un vessillo ideologico alle destre sovraniste (a partire da quello che si può etichettare come l’anti-Illuminismo), prodotti di grande successo dell’industria mediale come il cartone animato Masha e Orso (oggi ribattezzato da qualche buontempone Masha e Orsini) e promozione di un certo genere di teorie geopolitiche “euroasiatiche” presso il mondo accademico internazionale, va altresì osservato che il soft power Usa si rivela incrinato da un’alta marea di antiamericanismo, che covava in maniera carsica e di cui si riesce solo ora, dentro a questa crisi, a misurare tutta la portata. E non va trascurata l’insorgenza del “fattore P” (nella fattispecie, non l’iniziale di potere, ma del cognome dell’autocrate al vertice della Federazione russa), che determina una nuova potenziale “conventio ad excludendum” e perimetra il quadro di compatibilità per le forze politiche che aspirano ad arrivare al governo delle democrazie liberali.

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L’Europa, invece, appare drammaticamente priva tanto di hard che di smart power (e con un soft power bisognoso di restauro). E dire che proprio dalla cultura europea arrivava una descrizione esemplare (e molto in anticipo sui tempi) del potere putiniano, tra neolingua e artificioso revanscismo nazionalista. Leggere, per credere, George Orwell.