Il rifiuto per le imposte per i redditi più alti e per la lotta all’evasione fiscale è la strategia con cui Salvini e soci fanno pagare i balzelli sempre ai soliti. E dispiace che a sinistra non si sia capaci di difendere l’equità fiscale

Il buon Enrico Letta ci aveva provato subito, appena insediato il governo delle ampie intese, suggerendo un’imposta del 20 per cento sulle successioni superiori ai cinque milioni per finanziare un tesoretto da destinare ai più giovani. Apriti cielo, «è una patrimoniale!», si gridò. Prima che la polemica dilagasse, Mario Draghi aveva tagliato corto: «Non è il momento di prendere soldi ai cittadini, ma di darli». Avveniva giusto un anno fa, in piena pandemia, con le piccole imprese gelate dal virus e tanti senza lavoro. Vabbè. E il leader del Pd aveva taciuto. Amen.

 

In realtà non c’è bisogno di evocare una patrimoniale perché si diffonda il panico, anche tra chi il patrimonio manco ce l’ha; basta accennare genericamente a fisco e catasto perché si innalzi una barriera di dubbi, distinguo, paure. Cavalcate spregiudicatamente a destra, e nel silenzio imbarazzato della sinistra. È successo anche ora che c’è la guerra di Putin: tre impegni importanti di questo governo - le riforme di concorrenza, giustizia e fisco - strettamente legati alle sorti del Pnrr, occasione unica e irripetibile per fare ciò che non è mai stato fatto, sono stati rinviati, accantonati, svuotati. Del catasto, che ignora l’esistenza di centinaia di migliaia di immobili, e dei nuovi estimi si tornerà a discutere solo nel 2026, campa cavallo; e giù le mani dal “sistema duale”, formula aurea che si può tradurre così: aliquote molto più alte sull’Irpef, fino al doppio di quelle sui redditi da capitale. Tutto fermo. Rischia di vincere ancora il partito delle lobby, dello status quo e degli evasori fiscali. C’è sempre una campagna elettorale in agguato (oggi sono addirittura due) che impedisce una discussione serena intorno a questioni su cui poggiano equità e democrazia.

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Se si guardasse solo ai fatti, sarebbe facile dimostrare che il sistema fiscale italiano sembra organizzato per tassare solo stipendi e pensioni, e dunque finisce per premiare patrimoni e rendite. “Sistema duale”, appunto. Nel 2020 solo un milione e mezzo di italiani, il 4 per cento, hanno dichiarato guadagni superiori ai 70mila euro; il reddito medio dei lavoratori dipendenti è appena sopra i 20mila euro; ma è maggiore di quello dichiarato dagli imprenditori che a 20mila dicono di non arrivare e se la battono con i pensionati che sfiorano i 19 mila. Meglio se la cavano gli autonomi - quasi 53 mila euro - i quali però possono scegliere la tassazione a forfait pagando il 15 per cento su 65mila euro di ricavi, più o meno la metà di un lavoratore dipendente con lo stesso lordo annuo. E poi, ahimé, c’è il male cronico dell’evasione fiscale: 100 miliardi l’anno; e la storica incapacità dell’amministrazione a incassare perfino ciò che è concordato: ogni anno su 70 miliardi di crediti accertati non ne entrano più di dieci.

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Se così stanno le cose, il “no a nuove tasse” sbandierato dal centrodestra e la spinta per l’ennesimo “scostamento di bilancio”, insomma l’aumento del debito di tutti, significa in realtà “non toccate gli evasori”, perché qui non di nuovi balzelli si parla, ma di far pagare chi non paga, o dà troppo poco rispetto al tanto sul quale non dà niente. Un tasto dolente per la destra.

 

Già anni fa Giulio Tremonti definiva «immorale» l’imposta sulle eredità più ricche (che peraltro piaceva a Luigi Einaudi); arrivato a Palazzo Chigi Silvio Berlusconi la abolì. In tempi più recenti Forza Italia ha boicottato il tetto al contante, La Lega i pagamenti on line; e Matteo Salvini è arrivato a definire eroe l’imprenditore che per sopravvivere non paga le tasse.

 

Contro una destra che premia gli evasori, piacerebbe vedere un partito dell’equità fiscale che si batta per non lasciare il peso fiscale e il costo dei servizi solo sulle spalle di pensionati e lavoratori dipendenti. Anche se c’è la campagna elettorale, anche se il senso di responsabilità impone di non disturbare il manovratore. È un principio democratico, costituzionale di redistribuzione che dovrebbe fare tutt’uno con l’identità stessa di una sinistra che si dice riformista. E che tre crisi in un ventennio - economica, da virus, da guerra - hanno reso ancora più stringente. Quasi un obbligo.