Agli Usa sembra bastare l’aver fermato l’offensiva al Dnipro (e pazienza per quel venti per cento di territorio nelle mani di Mosca). Ma Zelenskyi ha alzato la posta

A star dietro alle parole sembra che la guerra in Ucraina non debba finire mai o finire dopodomani tanto sono ondivaghe le dichiarazioni sui due fronti persino a distanza di pochi minuti. Escludendo l’umoralità che non è concessa ai leader di Paesi belligeranti e dovendo per forza trovare un profilo razionale, sembrano piuttosto prese di posizioni funzionali a mandare messaggi. Ad uso interno o a uso esterno, agli alleati per rassicurarli o spaventarli, al nemico per studiarne le reazioni, alle proprie truppe per rincuorarle. Una gamma infinita e contraddittoria in cui è difficile raccapezzarsi. E poi c’è chi fa il poliziotto buono e chi il poliziotto cattivo all’interno della stessa amministrazione, secondo un canovaccio che abbiamo imparato a conoscere. Insomma una gamma di sfumature in cui è difficile raccapezzarsi. Se non tenendo ferma la barra di un percorso comunque delineato e che disegna una trattativa ormai più o meno sotterraneamente iniziata per arrivare finalmente a una tregua. Dove il «finalmente» è l’avverbio delle nostre speranze: le guerre hanno di solito una durata molto più lunga dei nove mesi che conta questa in atto.

 

Prendiamo per cominciare Volodymir Zelenskyi, 44 anni, presidente dell’Ucraina ed ex attore comico. Volle ignorare, a febbraio, gli allarmi provenienti da Washington che gli segnalavano l’imminente invasione dei russi (e gli viene ancora rimproverato). Quando tutti gli consigliarono di fuggire da Kiev, oppose fieramente una frase diventata storica: «Ho bisogno di armi non di un passaggio». Gliele hanno fornite, e ha condotto la resistenza in maglioni e t-shirt militari. Gli americani hanno guidato i Paesi occidentali nel desiderio di bilanciare le forze in campo e di fermare le mire imperiali di Vladimir Putin. Qualcosa ha iniziato a incrinarsi con Joe Biden, il presidente americano, nel mese di giugno quando, subito dopo l’ennesimo finanziamento di un miliardo di dollari, ha chiesto di più ed è stato bollato come ingrato.

 

Le incomprensioni sono durate tutta l’estate e si sono accentuate in autunno. A conferma che sponsor e protetto non hanno più la stessa visione circa le prospettive del conflitto. Agli americani sembra bastare l’aver fermato l’offensiva al Dnipro e pazienza per quel venti per cento di territorio nelle mani di Mosca. Gli evidenti successi sul campo di battaglia delle truppe ucraine hanno invece convinto Zelenskyi ad alzare la posta, indicare la riconquista totale di ciò che era ucraino fino al 2014 (dunque compresa la Crimea presa dai russi otto anni fa) come obiettivo. L’inerzia del conflitto sta dalla sua parte e non riuscirebbe a spiegare al suo popolo il sacrificio di centomila morti, i massacri, le angherie, i disagi, le sofferenze sopportate con grande disciplina in nome della difesa comune della patria. Li tradisse accettando un compromesso proprio adesso metterebbe a repentaglio la credibilità e il suo futuro politico, ammesso che ne possa avere uno: salvando i paragoni, nemmeno Churchill fu uomo della guerra e del dopoguerra. Eppure sa, Zelenskyi, che senza gli Stati Uniti non può vincere, non può sconfiggere da solo il nemico. E dunque deve digerire le bacchettate sulle dita diplomatiche, le sconfessioni. Come quando le agenzie di intelligence americane hanno indicato il governo ucraino come l’organizzatore dell’attentato a Mosca, il 20 agosto, in cui è morta Darya Dugina, la figlia dell’ideologo ultranazionalista Alexander Dugin, probabilmente il vero bersaglio della bomba. O, più recentemente, come quando Washington si è affrettata a smentire che fosse russo il missile che ha ucciso due contadini polacchi ripiegando su un errore della contraerea ucraina. C’era da evitare un conflitto diretto Mosca-Nato e nello stesso tempo cercare di usare l’inciampo per spingere il riottoso Volodymir a un tavolo negoziale. I dieci punti della sua proposta inviata al G-20 di Bali ne contengono uno irricevibile per Putin, quello sul ripristino delle frontiere internazionalmente riconosciute. Davanti alla prevedibile furibonda reazione americana ha però scelto il suo consigliere politico principale, Mykhailo Podolyak, per sfumare i toni seppur solo parzialmente: «Ci può essere una pace anche prima della liberazione di tutti i territori». Ma poi il corollario: «Perché se conquistassimo una città importante nel Donbass inizierebbero processi irreversibili nelle élite politiche russe e la guerra potrebbe finire prima di liberare tutto con mezzi militari».

 

È l’auspicio di un golpe a Mosca come alternativa al conflitto permanente. Auspicio o illusione? Il capo di stato maggiore Usa Mark Milley esclude che Kiev possa espellere l’esercito nemico oltre la frontiera. Putin, sul fronte opposto, ha capito da mesi che non può prendersi tutta l’Ucraina come era nel suo piano iniziale. E per poter comunque contrabbandare una sconfitta per una vittoria (anche lui ha lasciato sul terreno centomila militari) ha bisogno di tenere ciò che ha già, dire al suo popolo che i fratelli separati sono stati liberati dal giogo nazista ucraino e ha annesso i territori dove abitano alla madre patria. Così spinge per una soluzione negoziale. E se qualcuno si illude che rovesciandolo chi viene dopo scenderebbe a più miti consigli manda in avanscoperta il suo tirapiedi Dmitrij Medvedev, già presidente della Federazione russa incaricato di tenergli in caldo il posto quando la Costituzione gli impediva un terzo mandato consecutivo, perché mostri la faccia truce in modo da apparire, lui, un “moderato”. Ha scritto Medvedev: «Kiev è solo una città russa in cui si è sempre pensato e parlato russo. Vogliono che gli riconsegniamo la Crimea? Sono loro a doverci riconsegnare Kiev».

 

Dunque la trattativa corre su un crinale sottile dovendo prevedere due scenari che paiono inconciliabili: salvare il soldato Zelensky e salvare il soldato Putin. Impedire che uno dei due perda la faccia pena il naufragio di qualunque accordo. Sullo sfondo ma non troppo il resto del mondo che vorrebbe riprendere a fare affari senza il freno tirato di una guerra che affossa gli indici di Borsa, impedisce tra embarghi e difficoltà logistiche il libero commercio, fa aumentare il prezzo di diverse materie prime.

 

La Cina, l’India manifestano segni di insofferenza. Erdogan non vede l’ora di fare da mediatore. Il Vaticano si è messo a disposizione. Solita assente nel grande gioco, l’Europa delle finanziarie emergenziali aspetta che altri tolgano le castagne dal fuoco. Il bivio è chiaro: il sostegno all’Ucraina fino in fondo salva i principi e affonda le economie. L’accettazione della realtà del campo di battaglia salva le economie e affonda i principi. Prego, scegliere.