Una volta c’erano tre o quattro gruppi, fine. A maggio esploderà un caos di mille partiti costretti a stare insieme per i fondi
Diventeremo anche post europeisti dopo essere stati post tutto? Le elezioni europee del 23 maggio sono elezioni speciali in un tempo speciale. Rispetto alle precedenti la tensione è diversa, la confusione imperversa. Secondo i sondaggi non è previsto un sovvertimento degli equilibri, molto peggio. Potrebbe essere una rivoluzione.
Per la prima volta la torta del potere e delle poltrone non sarà spartita solo tra le due principali famiglie politiche europee, il Ppe, il partito popolare, e il Pse, quello socialista. I vaticini ma anche i piccini negli asili nido concordano che bisognerà dividere i bignè per tre o per quattro perché la politica sovranista-populista vorrà riempire il suo piatto. Il compromesso storico all’europea è a forte rischio.
Tanto per dirne una la presidenza del Parlamento europeo finora si divideva in due turni. Nella legislatura che si va chiudendo il primo era toccato a Martin Schulz socialista tedesco, poi a Antonio Tajani, popolare in Europa e azzurro in Italia. Così si componeva a grandi linee anche la crudelissima Commissione e poi tutte le altre cariche scendendo per li rami.
Ora in tutti i paesi dell’Ue nulla è più come prima. Sono nate nuove forze, le vecchie forze si sono indebolite, i voti sovranisti-populisti sono trasversali, più che le affinità dei contenuti contano alleanze e firme congiunte sui contratti. La presa del palazzo d’inverno di Bruxelles da parte dei rivoluzionari senza ideologia è in preparazione.
Il problema è l’aggregazione. C’è fermento, via vai, la possibile galassia di formazioni sovraniste-populiste è in movimento, gli scambi sono intensi ma non facili. I Cinque Stelle che avevano bussato invano alla porta dell’Alleanza dei Democratici e dei Liberali per l’Europa hanno dovuto ripiegare nel gruppo euroscettico di destra Europa delle Libertà e della Democrazia diretta, non proprio un sex symbol per Roberto Fico o Alessandro Di Battista. Ora Luigi Di Maio tenta il flirt con i Gilets jaunes in fieri di trasformarsi in forza politica, offrendo persino l’uso della piattaforma Rousseau. Proposta indecente per i francesi, ma intanto il sostegno di Di Maio ha fatto saltare i nervi al governo di Édouard Philippe.
I Gilets jaunes da una parte, la felpa verde dall’altra. La Lega di Matteo Salvini, inserita nel gruppo Europa delle Nazioni, cinguetta con il partito di Kurz in Austria e con quello di Orbán in Ungheria anche se i due hanno rimbrottato senza pietà il governo italiano sulla richiesta di sforamento del deficit. Al momento albergano nel Ppe, peraltro assai seccato dal corteggiamento dell’euro-errante Salvini.
Il tedesco Manfred Weber, stella della Cdu tra i papabili a succedere a Jean Claude Juncker, non ha ballato la Schuhplattler, danza bavarese, davanti alla prospettiva di un arrivo della Lega nel Ppe. I«cip cip» di Salvini con il Rassemblement National di Marine Le Pen non si odono più. Lei è più interessata a scambiarli con i Fratelli d’Italia di Georgia Meloni mentre sullo sfondo si profilano anche i voti di Vox, il partito nuovo di zecca fondato da una costola dei popolari spagnoli.
Chi prova di qua, chi prova di là. Un’ammuina, come si dice a Bruxelles. I liberali e i socialisti sognavano di annettersi l’En Marche di Emmanuel Macron che a sua volta lavorava al suo partito europeo e voleva mangiarsi lui i liberali. Ma le tensioni dei Gilets jaunes, le dimissioni a pioggia dei suoi ministri e il crollo della popolarità hanno reso ambizioni e quotazioni meno brillanti. Dettaglio sovranista, nessuno corteggia i nostri giallo-verdi.
Per alcuni partiti la sfida di maggio è doppia, non basta solo vincere nel proprio Paese, si deve anche capire in quali giochi entrare dopo le elezioni (per formare un gruppo e ottenere i pingui contributi ci vogliono 25 europarlamentari provenienti da almeno sette Paesi differenti).
Il subbuglio sarà notevole soprattutto per paesi abituati a sistemi in cui c’è chi vince e c’è chi perde. In questo genere di babele noi invece andiamo in brodo di giuggiole, i nostri master in caos politico sono i più accreditati.