Dopo le comunali tornano di moda le alleanze. Ma a differenza dell'Ulivo oggi il leader ingombra. A partire da Renzi

Abbiamo abbaiato contro il Porcellum perché i partiti perdevano i voti. Abbiamo riscritto la fisica della politica, sperando che gli asini volassero. E quando ci siamo accorti che gli asini non volano e la forza di gravità faceva precipitare il sistema, pur protetto da una corazza costituzionale a prova di crash, ci siamo domandati quale fosse la nuova, brillante idea per “fregare” il popolo e vincere. Ci siamo risposti che era colpa dell’anti-politica e che, se l’asse si era spostato così in là, forse stare da una parte non aveva più senso. Si poteva annacquare, allungare il brodo del bipolarismo con un paio di slogan. Dire che destra e sinistra non servono più, dire che basta fare massa contro il lato oscuro della politica, ciò che non conosciamo, l’uomo nero contro cui si scaglia proprio la destra che più gli somiglia.

Risultato: abbiamo a che fare con un centrosinistra frantumato in mille partiti, fra l’altro nel nome del lavoro e dei partigiani, quando invece sappiamo bene tutti che si consuma poco più che una guerra personale. Nemmeno contro Matteo Renzi e il suo governo (il governo è lo stesso, ma Paolo Gentiloni non è finito nel mirino di nessuno), una guerra contro noi stessi, contro lo specchio dove si riflette la brutta faccia della sconfitta del 2013, che non abbiamo digerito. Noi proviamo a capirci qualcosa con la copertina dell’Espresso: “Pezzi da coalizione”. Un gioco di parole che trasmette storia ma anche critica. Mette in conto che la vittoria del centrosinistra, come certi pezzi da museo, per ora è solo un ricordo del passato.

Ci poniamo tre domande cui non è detto che sappiamo rispondere, ma che ci piace leggere e su cui intendiamo riflettere.

Uno: cosa è successo davvero nel campo democratico dopo la non-vittoria di Bersani? Nel 2013 è iniziata una strana corrispondenza fra due Pd. Quello di chi non era riuscito a vincere ma sedeva in Parlamento e quello di chi aveva l’ambizione di vincere da fuori e contro il vecchio sistema, contro la Ditta, contro i capi storici. Quando tutto sembrava volgere al peggio, orecchie tappate e urla sempre più forti, un signore che di nome fa Romano Prodi si è presentato in una piazza e la gente lo ha applaudito. Molto forte. Più che nel 1996.

Due: cosa significa questo ritrovato affetto per Prodi? La risposta non può essere che, rottama oggi rottama domani, siamo tornati al principio, cosa che sarebbe una gran berlusconata. Né può essere la nostalgia dell’Ulivo, che fu un’idea elettorale riuscita, ma un progetto di governo breve. Pensiamo che Prodi stia lì a testimoniare un’altra cosa: ci dice che la fragile identità del Pd e della sinistra di governo, quella che oggi ha generato risse e un tale caos di partiti da aver bisogno di un manuale, non è il segno dei tempi di Renzi, ma è la vera, profonda natura di questa parte politica. Lo era nel 1996 e lo è ancora oggi. Una natura con cui abbiamo il dovere di fare i conti e il compito è di Renzi. Non perché sia il più bravo, ma perché guida il partito più grande e ambizioso.

Tre: cosa è cambiato oggi rispetto all’Ulivo? È cambiato il significato intimo della coalizione. Si è rovesciato. Un tempo per aggregare serviva un nome, oggi serve una casella vuota. Serve che il leader si sposti di lato. Anche se questo può significare che non sarà Renzi il candidato premier. È il salto di qualità che il Pd deve fare, perché “coalizione” non significa più allearsi con altri, significa togliere la zavorra emotiva per cui la leadership manifestata con tanta forza allontana una parte dei cittadini che, già vent’anni fa, votarono da questa parte. Significa togliere il dogma del capo come condizione preliminare per partecipare alla gara. Per assurdo, scostare il proprio destino da quello del Paese è l’unico modo per dimostrare di poterlo governare da Palazzo Chigi. Finché non succederà questo, avremo una sensazione di “pieno”. Quella che molti italiani faticano a classificare, perché somiglia alla fatica, all’essere stanchi già prima che cominci la partita.

Quando si trattò del referendum, Matteo Renzi si piazzò al centro del dibattito sulla Costituzione. E ne rimase travolto. Il binario su cui cammina oggi è lo stesso. Il treno elettorale viaggia ancora di là del tunnel ma sappiamo che, prima o dopo, passerà di qua con il suo fischio sordo lanciato all’ultimo istante. E Renzi, quando il treno fischierà, dovrà essersi già scansato. Se vuole avere una chance di salire a bordo, alla stazione successiva, se il centrosinistra vincerà le elezioni. Perché senza vittoria, nessuna alleanza potrà salvarci dal giudizio dei cittadini: «Magari sono tornati al potere, ma senza essere diventati grandi. Senza essere diventati una forza di governo».

Twitter @Tommasocerno