Potrebbe essere questo l'unico modo per sbloccare la situazione politica. E, d'altra parte, il nostro Paese ha già avuto cinque esecutivi senza fiducia in passato

E se alla fine della giostra si celebrasse un matrimonio fra 5 Stelle e Pd? Confetti rossi per tutti gli invitati. Se invece lo sposo (Di Maio) convolasse a nozze con Salvini? Confetti verdi e grandi libagioni. Ma se saltassero, uno dopo l’altro, tutti i piani di governo? In questo caso cadremmo mani e piedi in una condizione d’emergenza. Giacché non resterebbero che nuove elezioni, le quali tuttavia - con il Rosatellum che ci troviamo sul groppone - finirebbero per replicare la paralisi, lo stallo. Unica via d’uscita: la riforma della legge elettorale. E un esecutivo provvisorio per sospingerla, accompagnarla, indirizzarla.

Ma se l’emergenza fosse così acuta da rendere impossibile perfino il battesimo di un governo d’emergenza? Se nessun partito accettasse d’officiarne il rito? Se insomma, fra i corridoi e le sale di palazzo Chigi, continuasse ad abitare Gentiloni con il suo drappello di ministri? Potrebbe allora quel vecchio governo trasformarsi nel nuovissimo governo, assumendo per giunta poteri emergenziali?

Domanda impertinente, sennonché le carambole della politica italiana la fanno diventare dirimente. Nel frattempo il Premier (ancora) in carica è tutto l’opposto del dictator della Repubblica romana, del magister populi cui il Senato affidava la suprema potestà nei tempi di pericolo. Un Def (documento di economia e finanza) varato in modo neutro, per non invadere le scelte del governo che verrà. Due soli decreti legge negli ultimi sei mesi (sull’Alitalia e sull’Authority dell’energia), quando furono 100 nei cinque anni della legislatura scorsa. Nessuna iniziativa legislativa, sicché il Parlamento rimane sfaccendato (il vecchio Parlamento, viceversa, riuscì a timbrare 377 leggi). E intanto - ha calcolato il Sole 24 Ore - mancano all’appello 339 decreti attuativi, di cui 140 già scaduti.

Insomma, lassù nel Palazzo giace un corpaccione immobile: dal 28 dicembre, da quando il capo dello Stato firmò lo scioglimento delle Camere, il suo respiro normativo si è fermato, il cuore della legislazione ha smesso di pulsare. E meno male, verrebbe da osservare. Perché di troppo diritto si può anche morire, gli italiani ne sanno qualcosa. Inoltre non è detto che l’assenza d’un esecutivo nella pienezza dei poteri costituisca una iattura. Ne sanno qualcosa, stavolta, in Spagna (crisi di governo durata 10 mesi, nel 2015; e Pil in rialzo del 3,2%). In Belgio (544 giorni di crisi, nel 2010; Pil su del 2%). In Olanda (dopo le elezioni del 2017, stallo di 208 giorni; e picco di crescita degli ultimi dieci anni, con il 3,3%). O infine in Germania (6 mesi di crisi fra il 2017 e il 2018, ma intanto l’economia filava come un treno).

Fra noi e loro c’è una differenza, tuttavia, e di non poco conto. Perché i tedeschi, così come tutti gli altri, non dovevano cambiare la legge elettorale, in caso d’elezioni anticipate. Hanno vissuto un’emergenza politica, non istituzionale. Il guaio del Rosatellum è tutto qui: trasforma il voto popolare in un enigma, un rebus senza soluzioni. Se fosse un maggioritario puro, sapremmo già chi ha in tasca le chiavi del governo. Se fosse un proporzionale puro, non darebbe spazio alle coalizioni elettorali, dunque Salvini potrebbe allearsi con Di Maio senza tradire Berlusconi. Invece il Rosatellum è un ibrido, un bastardo. Somma i difetti del maggioritario e del proporzionale, senza rifletterne i vantaggi. Urge gettarlo nel cestino dei rifiuti. Anzi: la sua riforma è un’emergenza, e l’emergenza giustifica la rottura d’ogni regola vigente. Nessuna autovettura può procedere quando scatta il rosso del semaforo, ma se si tratta di un’ambulanza con un malato a bordo, allora la regola non vale.

Da qui, forse, perfino l’ipotesi di un decreto che riscriva la legge elettorale, ove fallisca l’accordo fra i partiti. Però non c’è bisogno che lo firmi Gentiloni, pur sempre figlio d’un Parlamento ormai defunto. Meglio un governo terzo, esterno alla politica. Che in nome dell’emergenza giuri nelle mani del capo dello Stato, pur sapendo di non ottenere la fiducia. È già successo, del resto, almeno cinque volte (nel 1953, nel 1954, nel 1972, nel 1979, nel 1987). Avanti così, e succederà di nuovo.