A livello nazionale il premier ha accentrato molti poteri. Ma nei territori ha lasciato che i signori delle tessere continuassero con i loro affari opachi

Tutta colpa di Garibaldi. Se non vi avesse soggiornato nell’autunno del 1860, di quel palazzo non si sarebbe impicciato mai nessuno. In quei saloni di una bella - un tempo - residenza borghese, l’Eroe dell’impresa dei Mille infatti accettò la resa di Capua, dopo aver regalato a Vittorio Emanuele II, in cambio di una stretta di mano nella vicina Teano, il collassato Regno delle Due Sicilie. Palazzo Teti Maffuccini, sito sconosciuto del profondo Sud raccontato sul “Corriere della Sera” da Rizzo e Stella. Il suo restauro, o meglio i finanziamenti pubblici necessari per eseguire i lavori, hanno innescato la scintilla di un nuovo corto circuito politica-giustizia. Raffica di arresti a Santa Maria Capua Vetere; ombre di camorra; indagato anche il presidente del Pd della Campania, già deputato e ora consigliere regionale, Stefano Graziano. Un intreccio di relazioni pericolose in cambio di voti. E di soldi della collettività per un simbolo di potere, la dimora di Garibaldi, appunto.

L’inchiesta giudiziaria deflagra nel partito al governo della Campania, regione cui Matteo Renzi sta dedicando negli ultimi mesi maniacale attenzione. Saranno le imminenti elezioni comunali di Napoli, saranno le critiche subite per la mancanza finora di un progetto per il Mezzogiorno d’Italia, ma appena 48 ore prima che un pezzo del suo partito finisse nei guai, il premier-segretario aveva firmato con il governatore Vincenzo De Luca un “patto per la Campania” del valore di 10 miliardi. Un tesoro da spendere in quattro anni, fino al 2020. Progetti, cantieri, bonifiche. Uno sforzo, almeno sulla carta, senza precedenti nell’ultimo disastrato ventennio. Tale da far dire al politologo Mauro Calise sul “Mattino” di Napoli: «Il presidente del consiglio ha messo la propria faccia sulla scommessa di un nuovo Sud».

Le due cose - il piano per la Campania, l’inchiesta giudiziaria - apparentemente sono scollegate. Non c’è alcun elemento che rimandi l’una all’altra. C’è però una considerazione dalla quale non si può sfuggire: l’inadeguatezza delle classi dirigenti locali nel gestire denaro pubblico. Non solo nel Sud. Come dimostrano Expo, Mose, banche, sanità. Renzi nell’intervista a “Repubblica” ha replicato a Piercamillo Davigo, da poche settimane a capo dell’associazione magistrati, con un «fuori i nomi dei corrotti». Dalla regione che in queste settimane gli sta tanto a cuore, sembra arrivare un beffardo post it: eccoli; non li conosci? Roba di casa…

Più alta è la tensione con la magistratura, più si manifesta la debolezza del Pd di Renzi: un partito da Nord a Sud incrostato di pratiche opache, di affarucci grandi e piccoli, di scandali veri. Il premier-segretario non è riuscito a rottamare capicorrente e signori delle tessere. E si ritrova esposto su più fronti, dalla Sicilia del familismo amorale fino alla rossa Emilia. In questi due anni non ha avuto testa, voglia e tempo di mettere ordine nel rissoso mondo dem. Mentre l’accentramento dei poteri decisionali in poche mani, in quello che viene definito “giglio magico”, ha moltiplicato i casi di conflitto di interessi. In sé il lobbismo organizzato (cui è dedicata la nostra copertina di questa settimana) non è materia per i pubblici ministeri. Se svolto rispettando le leggi. Riguarda l’opportunità politica, prassi alla quale si è appellato Renzi per dimissionare la Guidi. L’ex ministra, non indagata, ha perso la poltrona. Altri membri del governo, sottosegretari, pur indagati invece restano al loro posto. Dove inizia e dove si ferma l’opportunità politica è una valutazione tutta nelle mani del leader. Amministrata in base alla convenienza mediatica.

Nel ventennio berlusconiano garantisti pelosi e manettari di complemento si fronteggiavano a prescindere. Gli italiani hanno assistito sgomenti alla pervasività della corruzione. Ma anche alla farraginosità di certe azioni giudiziarie poi sfociate nel nulla. Una politica credibile, trasparente, autorevole può chiedere conto delle manchevolezze, dei protagonismi, dei ritardi, degli errori della magistratura. Perché il sistema giustizia in Italia, per cause sia esterne sia interne, funziona davvero male. Sottolinearlo, non appaia un attacco ai magistrati. È un dato di fatto certificato dalle statistiche.

Ma in una democrazia sfibrata, dove il ruolo del leader si rimodella in funzioni sempre più decisioniste, qual è la funzione della magistratura? Di controllo della legalità? O di contrappeso istituzionale? Nella domanda c’è già l’innesco di un nuovo incendiario corto circuito politica-giustizia.

Twitter @VicinanzaL