L’idea del boicottaggio ai Giochi del 2024 rischia di essere un boomerang. Tradisce lo spirito sportivo e bolla gli atleti solo per la loro provenienza geografica

Con una robusta dose di fariseismo, si condannano spesso e da più parti le invasioni di campo della politica nello sport e viceversa. Caso recente sono i Mondiali di calcio in Qatar. Si rispolverano frasi fatte sull’indipendenza dello sport, si cita la tregua olimpica e i suoi i valori morali. Come se i due mondi non fossero in realtà interconnessi e non da oggi. E come se non fosse la politica a trasformare gli atleti in vessilli ad uso e consumo di parte.

 

Almeno in Occidente si va negli ultimi giorni affermando un pensiero unico o quasi a favore dell’esclusione di russi e bielorussi dai Giochi di Parigi 2024. Prova ne sia che il Parlamento Europeo ha appena votato con maggioranza bulgara (444 favorevoli, 26 contrari, 37 astenuti) una risoluzione con cui si invitano «gli Stati membri e la comunità internazionale a esercitare pressioni sul Cio affinché revochi la decisione (di ammettere questi atleti, ndr) e adotti una posizione analoga su ogni altro evento sportivo». Anne Hidalgo, sindaca della capitale francese che ospita l’evento, si è espressa pure in questo senso. Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha convocato un summit su Zoom a cui hanno partecipato 37 Paesi (per l’Italia il ministro dello Sport Andrea Abodi) per spingere la linea dell’esclusione e ha raccolto l’impegno di alcuni governi, quello polacco in primis, a immaginare forme di boicottaggio se prevalesse l’idea dell’inclusione. Ne è seguita una lettera al Cio con 34 firme, tra cui quella di Abodi a nome dell’esecutivo Meloni, in cui si chiede una marcia indietro sull’apertura agli atleti russi e bielorussi. Persino il presidente del Coni Giovanni Malagò, peraltro membro del Cio, si è schierato con Palazzo Chigi. Davvero una massiccia invasione di campo sulla quale si può dissentire per motivi pratici oltre che morali. È dubbio che le sanzioni in generale, quando sono state applicate, abbiamo prodotto risultati concreti. È accaduto a Cuba e nella Serbia di Slobodan Milosevic. Analogamente sembra andare in Russia: si chiama eterogenesi dei fini.

 

I provvedimenti per isolare un Paese dal punto di vista culturale e sportivo sono ancora più inefficaci e persino odiosi. Intanto perché impediscono una circolazione di idee e di uomini, una libertà che dovrebbe esserci cara. E poi perché vanno a colpire indiscriminatamente persone a causa della loro carta d’identità, della loro origine. Sarebbero comprensibili ostracismi mirati contro campioni che si sono schierati con il Cremlino, a favore della guerra di aggressione, non una punizione collettiva. Uno dei motivi addotti per la linea dura chiama in causa lo status di almeno il 70 per cento degli atleti russi che appartengono alle forze armate. Costume diffuso anche in Italia. Si temono, altro argomento, dissidi in pista e in pedana se dovessero incrociarsi i destini di atleti russi (o bielorussi) e ucraini. E se invece, come è già successo, in uno spirito olimpico mondato dagli eccessi della propaganda, fossero proprio gli atleti, abbracciandosi, ad indicare la via a politici e generali? Quella sì sarebbe una benemerita invasione di campo. Per propiziarla servirebbe guardare oltre al cannone come unica possibilità.