Furti e danni alle opere per un valore che oscilla tra 4 e 20 milioni di euro. Mentre i registi dell’assalto ai palazzi dei Tre Poteri e i finanziatori restano coperti da un’estesa rete di protezione

C’è chi piange, chi si dispera, chi accusa di «tradimento» i militari che al posto di proteggerli li ha consegnati alla polizia. La favola del Bene che sconfigge il Male questa volta ha un risvolto imprevisto. Svela che si è trattato di un grande inganno. Chi la raccontava sulle messaggerie criptate con nomi di gruppi che evocavano lotte mistiche alle lussurie dell’antica “Babilonia” o ricordavano l’innocenza del “Bambino” o ancora proponevano “Feste” e frivole “Caccia e pesca”, in un gioco di fantasia che puntava a depistare chi scandagliava la Rete, alla fine ha lanciato il sasso ma nascosto la mano.

 

C’è un gruppo preciso che ha mestato nel torbido. Che ha mobilitato la piazza senza esporsi. Che ha atteso il risultato e quando ha visto il fallimento ha preso il largo. Non solo i responsabili politici e della sicurezza pubblica, dimessi, incriminati e arrestati. Ci sono i finanziatori occulti. L’assalto ai palazzi dei Tre Poteri di Brasilia, domenica 8 gennaio scorso, ha dimostrato quanto fosse radicato nel Paese il rifiuto di un voto che ha assegnato la vittoria alla sinistra proclamando Inácio Lula da Silva il 39° presidente del Brasile. Chi lo ha esaltato, guidato, organizzato per almeno tre anni, è tuttora protetto dalla sua condizione economica e sociale oltre che da settori militari e della polizia.

 

Se nella prima settimana di questo 2023 i social pullulavano di proclami bellicosi e incitamenti a prendere il potere da parte dell’esercito, la seconda è un coro disperato di commenti densi di tragedia e di paura. I tremila partecipanti adesso si abbandonano a risentimenti, abiure, condanne in una «caccia» al colpevole che ovviamente sono «gli infiltrati provocatori». Gente legata al Pt di Lula che ha trasformato una battaglia in un saccheggio. L’ennesimo fake delle migliaia che hanno scandito prima la vittoria di Jair Bolsonaro nel 2018 e poi l’ultima campagna elettorale. Non si registra un solo commento nel quale si metta in dubbio la scelta scellerata di una devastazione che era puro sfogo e non certo azione politica. Tutto diventa un equivoco. La farsa con cui si cercava di nascondere il golpe. È l’ennesimo tentativo di salvarsi e di ridurre quasi a una ragazzata l’assalto alla democrazia. Eppure, dietro questi uomini e donne, anziani e giovani, famiglie intere, disposti a un viaggio di dieci ore, a piedi e su bus messi a disposizione, per non mancare all’appuntamento con la Storia, ci sono oltre 58 milioni di voti per l’estrema destra: il 49,1 per cento del corpo elettorale, metà del Brasile.

 

Il cambio di umore deriva dal timore di una condanna che potrebbe anche arrivare a infliggere 30 anni di carcere. Solo quando sono stati portati in Prefettura, le mani legate dietro la schiena, identificati e interrogati, i seguaci dell’ex capitano diventato presidente hanno fatto i conti con la realtà. Si sentivano protetti, sostenuti dai militari che li avevano ospitati sul loro territorio, davanti al quartier generale dell’esercito, per due mesi. Vedersi sgomberare a forza dal loro campeggio e finire in un carcere famigerato come Papuda, dove sono rinchiusi killer e boss del narcotraffico, è stato un vero shock. Sui 1.500 arrestati, 648 sono stati rilasciati. Persone anziane, con problemi di salute, donne con bambini piccoli. «Motivi umanitari», ha spiegato la polizia.

 

Adesso si fanno i conti dei danni. Sono ingenti. Una prima stima parla di quattro milioni di euro, che possono arrivare a 20. La squadra di 50 investigatori che sta setacciando la sede della Corte suprema federale, del Congresso e della Presidenza, è affiancata da esperti della Sovrintendenza e del ministero della Cultura. La spianata dei ministeri, come gran parte di Brasilia, è stata disegnata da Oscar Neimeyer nel 1960. Concepì una città dal nulla; la creò come sospesa su una pianura verdeggiante con palazzi ed edifici moderni, basati su un’architettura futurista, rivoluzionaria per quei tempi. Dal 1987, il cuore del potere è patrimonio dell’umanità, tutelato dall’Unesco. Ma le ferite inflitte a questi palazzi, dentro e fuori, sono profonde. Quelli che hanno potuto visitarli raccontano di sfregi su Las Mulatas, un dipinto di donne in cammino che domina la Sala Nobile di Planalto: trafitto con almeno sette coltellate e strappato in più punti. Realizzato da Emiliano di Cavalcanti, pittore modernista brasiliano degli Anni Venti, era passato nelle mani del governo dopo il fallimento di una compagnia di assicurazioni. Viene valutato in 1,6 milioni di dollari. C’è poi l’orologio del XVII secolo appartenuto a Valthazar Martinot, l’orologiaio di Luigi XVI. Era un dono della Corte francese al re portoghese João VI, giunto a Rio da Lisbona quando fuggì da Napoleone. È rimasto solo l’involucro. Ce n’erano solo due al mondo. L’altro è conservato a Versailles.

 

Ci sono i doni delle delegazioni di Iran, Ungheria, Algeria e Indonesia. In parte rovinati, in parte trafugati. Sparita anche una enorme perla donata dal Qatar. E poi i rivestimenti danneggiati. Come la parete lignea policroma di Athos Bulcão. Infine, le sculture: il Pifferaio Magico di Bruno Giorgi, totalmente distrutto, la statua della Dea bendata, simbolo della Giustizia, realizzata da Alfredo Ceschiatti davanti alla Corte suprema su cui l’orda di invasori si è accanita con i punteruoli. Chi pagherà? In Brasile si è aperto il dibattito. È molto probabile che i danni saranno accollati a chi verrà condannato in un processo che si annuncia epocale. Il 93 per cento degli intervistati in un sondaggio non assolve i fan di Bolsonaro. Le responsabilità penali sono personali. Su questo la giustizia brasiliana è inflessibile. Chi indaga ha raccolto centinaia di elementi. Video, filmati, foto, dialoghi sulle chat, impronte digitali, persino reperti biologici. Ai responsabili si uniranno i finanziatori dell’assalto e poi i dirigenti della polizia militare e comandanti dell’esercito che lo hanno agevolato. Sono stati individuati e i primi arrestati nell’operazione “Ulisse”. L’ultima azione della magistratura, il solo baluardo rimasto a difesa della democrazia davanti a un Paese sull’orlo di un golpe.