Kaddari, Crippa, Dosso. Giovani donne e uomini di seconda generazione, nati o cresciuti nel nostro Paese, che fanno il pieno di medaglie nei campionati di atletica leggera. Ma devono ancora vincere la battaglia più dura

Il nuovo volto dello sport è sul feed Instagram di Pietro Riva che per celebrare il quinto posto dell’Italia nei 10mila metri ai recenti campionati europei di atletica, ha scelto la foto dell’abbraccio con Yeman Crippa, l’azzurro che all’Italia ha regalato l’oro, oltre al bronzo nei 5mila metri: «Danke Schön Munich» scrive Riva in calce al suo post: è un ringraziamento che apre un nuovo capitolo dello sport europeo, proprio mentre oltreatlantico si chiude quello di Serena Williams, la regina del tennis uscita dal ghetto nero di Compton per rivoluzionare uno sport bianco per tradizione. È grazie ad atleti come lei se, dalla sua prima vittoria agli Open del ’99, le rivendicazioni per i diritti sono diventati l’altro lato dello sport, un epiderma sensibile sui campi di gara, in fondo una nuova missione, come oggi confessa chi è stato ispirato dal suo esempio.

 

Lo si vede bene nell’atletica leggera, che ha cambiato il volto della Nazionale, abbattuto stereotipi. Nella disciplina dove la fuga verso la vittoria sta nel tempo, possono essere sufficienti pochi secondi per trasformare tutto. Come quelli gloriosi di Marcell Jacobs, all’alba dell’agosto 2021. Con un tempo di 9”80 non solo ha segnato un nuovo record europeo, ma ha scatenato una reazione a catena travolgente: a settembre 2021 i corsi di atletica hanno registrato il 40 per cento di iscritti in più rispetto al 2019.

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Una grande rivoluzione che ha per protagonisti gli italiani di seconda generazione. L’ultima l’ha fatta in questo agosto, altrettanto magico, Yeman Crippa, con l’oro europeo nei 10mila metri: «Quando ci penso, mi batte ancora forte il cuore» confessa Yeman, nato in Etiopia ma col cuore in Trentino, dove ha iniziato con le gare a scuola e le prime corse campestri: «Il punto di partenza è la scuola, perché lì prendi confidenza con l’atletica e scopri se hai questo sport nel Dna. Se i grandi ci indirizzano e supportano, ci si avvicina a questa disciplina», dice. Risale al 2017 l’ultima volta che è stato in Etiopia, dove è cresciuto prima di essere adottato all’età di cinque anni: «Sono affezionato alla mia terra, ma ho pochi rapporti. Per questo, a chi oggi si trova in una situazione difficile, dico di non mollare, perché a ciascuno di noi è offerta una seconda occasione». Per Crippa e gli altri non c’è medaglia che compensi un esordio difficile, e lo sport dà un grande insegnamento: «Nell’atletica riesci a trovare persone uguali a te, è sempre un modo in più per conoscere l’altro».

 

Per Zaynab Dosso, emiliana nata in Costa d’Avorio, i primi passi in un campo di atletica sono stati una lotta per emanciparsi dalle resistenze in famiglia e dai pregiudizi sociali: «In casa facevamo molti sacrifici per andare avanti, per questo aiutavo mia madre con le pulizie in un centro giovani. Spesso andavo ad allenarmi di nascosto dai miei». A marzo scorso a Belgrado, ottenendo il nuovo record italiano nei 60 metri piani, ha diluito gli esordi difficili nella rivincita anche in famiglia: «A Belgrado mia madre mi ha telefonato dicendo che era fiera di me. Era la prima volta che la sentivo piangere per la commozione», ammette emozionata. Perché nell’atletica alla prestazione in corsia si aggiunge tutto ciò che sconfina da quella riga tracciata su pista, che dagli spalti non si vede, le relazioni umane: «Devo tanto alla mia allenatrice Loredana, che mi pagava i libri di scuola perché continuassi a studiare. Per questo, oggi a chi si trova in difficoltà, dico di continuare ad avere fede: i ragazzi devono dimostrare a loro stessi, all’Italia che ce la possono fare, ma il mio invito va anche agli adulti, perché li supportino sempre nei loro sogni».

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A Monaco il sogno di Zaynab si unisce a quello di Dalia Kaddari, Anna Bongiorni e Alessia Pavese, che hanno portato l’Italia sul podio con un bronzo nella 4x100 femminile dopo 70 anni: «Attraverso tanti sacrifici, toccare questo traguardo per me significa molto, mi dico spesso che ce l’ho fatta, e mi emoziona poterlo dire indossando finalmente la maglia azzurra», ammette. Le fa eco la sua compagna di staffetta, Dalia Kaddari, padre marocchino e mamma sarda, che vede nello sport una lezione di vita e riscatto, anche femminile: «Noi tutte stiamo facendo qualcosa di grande in una disciplina che per anni è stata prevalentemente maschile. Oggi non è più così, e il merito è dello stesso sport, che ti permette di superare le difficoltà quando le incontri: nell’atletica, sono infatti i momenti bui che ti fanno andare avanti, ti danno la spinta per superare le sconfitte». Uno sport come la staffetta incarna bene la forza che viene dall’andare uniti verso un traguardo comune, anche quando si tratta di una sfida di genere: «Nell’atletica corri contro il tempo: è lui l’unico avversario e non ci sono altre differenze» spiega Dalia.

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Da oltre dieci anni la Federazione italiana di atletica leggera promuove l’integrazione di atleti in attesa di ricevere la cittadinanza. Sono i cosiddetti “equiparati”: giovanissimi nati o cresciuti in Italia ma senza cittadinanza, tesserati per società affiliate alla Fidal che possono concorrere all’assegnazione del titolo di categoria e assoluto ai campionati italiani, regionali e provinciali individuali: «Nella sola categoria ragazzi, la Fidal conta una fascia di oltre 600 atleti equiparati che concorrono a un titolo. È un numero grosso e, se scendiamo nella fascia degli esordienti, la fascia è ancora più ampia», spiega Antonio Andreozzi, vice-direttore tecnico per l’attività giovanile. «Il punto è che, se non hanno la cittadinanza, non possono essere chiamati in Nazionale. Ma noi li teniamo stretti, perché sono italiani e formati in Italia». Per loro, la corsa contro il tempo è anche fuori dalla pista. Come Judy Ekeh, la velocista italo-nigeriana che ha ottenuto la cittadinanza una manciata di giorni prima dei campionati del mondo juniores di Barcellona nel 2012: «Oggi abbiamo tre casi eclatanti: Great Nnachi, Mifri Veso e Alexandrina Mihai», sottolinea Andreozzi. «Hanno conseguito importanti risultati, noi li stiamo supportando, poi il resto è competenza del ministero».

 

Ma è nei palazzetti dello sport che la norma lascia il posto alle occasioni di riscatto. Ala Zoghlami, settimo nei 3mila siepi, ha trovato una nuova vita a Palermo, a una manciata di chilometri dalla sua Valderice dove è cresciuto con il fratello gemello Osama, che ai 3mila siepi è arrivato terzo: «Da piccolino non ero mai andato oltre Valderice e Trapani, quando mi sono trasferito sono entrato in un mondo bellissimo, dove ho scoperto gente che mi ha voluto bene fin dall’inizio».

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Così, nella città che divora i suoi e nutre gli stranieri, i gemelli nati a Tunisi hanno imparato, grazie all’atletica, il potere di assottigliare i confini: «Molti pensano che noi corriamo soltanto, ma questo sport è molto di più. Per esempio, ho nel cuore i campionati italiani di Rovereto, dove ho toccato con mano l’affetto delle persone che mi vogliono bene: porto con me ancora gli applausi e il loro tifo, perché lì ho ricevuto tutto l’affetto di cui avevo bisogno». Molti di questi volti sono promossi dalle Fiamme Oro che, attraverso 32 sezioni giovanili nate in aree geografiche difficili, avvicinano allo sport molti giovani, insegnando loro un altro modo di vivere. Attualmente, sono circa 3mila i giovanissimi atleti iscritti ai gruppi sportivi Fiamme Oro. Complessivamente gli atleti cremisi hanno portato al medagliere azzurro 56 medaglie, 24 d’oro, 18 d’argento e 14 di bronzo delle complessive 117 medaglie vinte dall’Italia: «Per me l’atletica è un mondo di opportunità che mi permette di conoscere persone nuove e comprendere il linguaggio universale dello sport», spiega Ayomide Folorunso, primatista azzurra nata in Nigeria. «Quando sei alla linea di partenza non ti senti mai veramente sola, perché essere lì è frutto di un grande lavoro di squadra. Anche l’avversario smette di esserlo quando condividi i suoi stessi sacrifici. Il tuo competitor resta il cronometro, anche chi compete con te va ringraziato, perché ti dà quella pressione che condiziona la tua prestazione» aggiunge. L’atletica è una lezione di vita per Ahmed Abdelwahed, argento europeo a Monaco nei 3mila siepi con un tempo record: «Lo sport per me è lo specchio della vita, mi dà conforto sapere che dalle difficoltà posso sempre imparare qualcosa, posso crescere come essere umano».

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I tempi in cui lavorava alle bancarelle del mercato di Ostia per sbarcare il lunario sono lontani, non come un ricordo ingombrante, ma piuttosto come parte di un percorso a ostacoli ormai alle spalle, come in una delle sue gare: «L’atletica va in parallelo alla mia vita: più cresco sportivamente, più acquisisco maturità anche a livello di relazioni interpersonali e cooperazione con il prossimo. Perché se il primo stimolo dello sport è quello del riscatto, poi quel riscatto va trasformato in passione, perché sennò si entra in un circolo vizioso in cui lo sport diventa la più grande paura che devi sconfiggere per riprendere nelle mani la tua vita. Ma l’atletica, per tutti noi, non è mai ossessione. È vita». Oggi, guardando il tricolore sulle loro spalle, riconosciamo a tutti loro il merito di aver trasformato una disciplina individuale in uno sport collettivo: «Can we share a gold?», chiedeva Gianmarco Tamberi prima di travolgere con l’abbraccio il qatariota Mutaz Essa Barshim, anch’egli al primo posto nel salto in alto alle Olimpiadi di Tokyo 2020. Forse il più grande messaggio dell’atletica è questo: arrivare a condividere l’oro, che è una vittoria di tutti, senza eroi né figli di un dio minore.