Il Congresso e le inchieste penali accumulano prove sul 6 gennaioe ora il futuro dell’ex presidente è a rischio. E anche quello della democrazia Usa

Centottanatasette minuti, poco più di tre ore. In quel lasso di tempo, era il 6 gennaio 2021, gli Stati Uniti d’America sono stati sull’orlo del baratro, con una folla armata ed inferocita che aveva assalito il Campidoglio costringendo alla fuga senatori e deputati e un presidente - formalmente ancora in carica per pochi giorni - che quella rivolta l’aveva ispirata, voluta, forse preparata. Quanto accaduto in quei 187 minuti e il ruolo giocato da Donald Trump in una rivolta armata senza precedenti negli ultimi due secoli di storia americana, sono stati al centro giovedì scorso dell’ottava udienza della commissione ristretta di deputati che indaga sull’assalto al Congresso.

 

L’ultima udienza (per ora) di una indagine parlamentare che ha già messo in moto altre indagini (questa volta penali) e che condizioneranno da qui a due anni la vita pubblica e personale di The Donald e le vicende politiche e sociali dell’intera America. La deputata democratica della Virginia Elaine Luria, che ha condotto l’udienza insieme al repubblicano dell’Illinois Adam Kinzinger, ha ricordato le «dichiarazioni infiammatorie» fatte da Trump alla folla che si era radunata davanti al Campidoglio prima dell’assalto, le pressioni che The Donald fece sul vice-presidente Mike Pence perché rifiutasse di accettare la sconfitta elettorale, la volontà manifestata dall’ex presidente di marciare alla testa dei rivoltosi.

 

È stata una ulteriore presentazione di prove che implicano la diretta responsabilità di Trump in una cospirazione su più fronti per ribaltare la sua sconfitta alle elezioni del novembre 2020 e culminata nell’attacco armato al Congresso. Ha dimostrato l’incapacità dell’ex presidente di calmare la folla violenta e di come per diverse ore abbia mostrato una «suprema negligenza del dovere». La commissione ha esaminato cosa è successo dalla prima arringa di Trump fino a quando ha finalmente fatto una dichiarazione «alla nazione» invitando i rivoltosi ad andare a casa, ha riguardato i tweet dell’allora presidente che dalla Casa Bianca attaccava Pence per la mancanza di «coraggio di fare ciò che si sarebbe dovuto fare» per poi finire col dire alla folla violenta di «rimanere pacifica».

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Prove su prove per capire se Trump abbia violato i suoi doveri di presidente degli Stati Uniti, se abbia fedelmente o meno seguito la legge, se sia stato all’altezza del suo giuramento e della sua responsabilità nei confronti del popolo americano. A dare una mano alle motivazioni di Luria ci ha pensato Liz Cheney, deputato repubblicano del Wyoming e figlia dell’ex vice-presidente di George W. Bush, che in una precedente udienza aveva mostrato come Trump «non fosse riuscito a prendere provvedimenti immediati per fermare la violenza e a dare istruzioni ai suoi sostenitori di lasciare il Campidoglio». Cheney che alla vigilia dell’udienza ha confermato le prove: «Ascolterete un resoconto momento per momento dell’attacco durato ore da più di una mezza dozzina di membri dello staff della Casa Bianca, sia dal vivo nella sala delle udienze che attraverso testimonianze video. Non c’è dubbio che il presidente Trump fosse ben consapevole della violenza che si stava sviluppando. Non solo si è rifiutato di dire alla folla di lasciare il Campidoglio, ma non ha chiamato nessun membro del governo degli Stati Uniti per ordinare di difendere il Campidoglio. Non ha chiamato il suo segretario alla Difesa il 6 gennaio, non ha parlato con il suo ministro di Giustizia e neanche con il dipartimento di Sicurezza nazionale».

 

Il futuro di Trump, del partito repubblicano e della stessa America è in gioco tra le indagini del Congresso e quelle penali che coinvolgono alcuni dei suoi più stretti collaboratori. ll dipartimento di Giustizia sta aumentando il numero di procuratori e di risorse per le indagini sulle azioni di chi si è alleato all’ex presidente per rovesciare il risultato elettorale del 2020, visto che le udienze del Congresso hanno fatto crescere il ruolo avuto dallo stesso Trump. Ad oggi i procuratori hanno accusato circa 850 persone in relazione alle violenze del 6 gennaio, tra cui più di una dozzina di membri di gruppi di destra accusati di cospirazione sediziosa contro gli Stati Uniti. Dalla fine del 2021 il dipartimento di Giustizia ha iniziato ad indagare anche sulle fonti di finanziamento dei gruppi dell’estrema destra, assegnando le indagini a un noto e capace procuratore del Maryland, Thomas Windom.

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Inizialmente Windom aveva incontrato un certo scetticismo all’interno del ministero di Giustizia per le indagini sulle attività di diversi membri della cerchia ristretta di Trump, ma le ultime udienze e i nuovi dettagli sul coinvolgimento dei suoi fedelissimi gli hanno dato ragione e l’ex presidente potrebbe trovarsi presto ad essere accusato direttamente di frode, istigazione alla rivolta e ostacolo alla certificazione delle elezioni. C’è la testimonianza di Cassidy Hutchinson, ex assistente del capo dello staff della Casa Bianca Mark Meadows, che ha rivelato come Trump sapesse che alcuni dei manifestanti erano armati, ma li ha voluti comunque al suo raduno e al Campidoglio: «Non mi interessa che abbiano armi, non sono qui per farmi del male. Fate entrare la gente, da qui possono marciare verso il Congresso».

 

L’altro punto dolente per Trump riguarda le rivelazioni sull’operato del Secret Service, gli agenti al diretto servizio di ogni presidente Usa. Durante le audizioni al Congresso sono stati confermati diversi dettagli sugli scambi di messaggi tra Trump e gli uomini della sua scorta, quando all’ex presidente venne detto che non poteva recarsi - come avrebbe voluto - al Campidoglio per guidare il corteo. Una settimana fa la commissione della Camera ha emesso un mandato di comparizione ai dirigenti del Secret Service per ottenere i messaggi del 5 e 6 gennaio 2021 che sarebbero stati cancellati, oltre a tutti i rapporti successivi all’azione. Una decisione presa dopo che l’ispettore generale del Dipartimento di Sicurezza Nazionale, l’agenzia madre dei Servizi Segreti, ha incontrato la commissione e ha detto ai deputati che molti dei testi sono stati cancellati come parte di un programma di sostituzione dei dispositivi anche dopo che l’ispettore generale li aveva richiesti come parte della sua indagine sugli eventi del 6 gennaio.

 

Anche in questo caso decisiva la testimonianza di Cassidy Hutchinson che ha ha ricordato come l’allora vice capo dello staff della Casa Bianca Tony Ornato - che aveva lavorato in precedenza per il Secret Service e poi era tornato all’agenzia nel 2021 - le ha detto il 6 gennaio che Trump era così infuriato con la sua scorta per avergli impedito di andare al Campidoglio che prima «ha allungato una mano verso la parte anteriore dell’auto presidenziale per afferrare il volante e con l’altra ha tentato di spingere via Robert Engel», l’agente a capo del Secret service. Hutchinson ha testimoniato che Ornato le ha raccontato la storia di fronte a Engel e che quest’ultimo non ha contestato il racconto.

 

Le audizioni al Congresso hanno dimostrato come una triplice serie di elementi abbia portato al violento assalto al Campidoglio: un presidente che chiama all’azione sostenitori infuriati; una folla di ferventi sostenitori che crede alla “grande bugia” delle “elezioni rubate”; gruppi di estremisti violenti ed organizzati che guidano la folla all’assalto. Tre elementi che hanno sfruttato la rete per diffondere disinformazione, pianificare un attacco violento, mobilitare una folla e fomentare la rabbia. Donald Trump e i suoi sostenitori hanno efficacemente approfittato di piattaforme di social media che hanno permesso alla disinformazione di agire liberamente, di reti online in grado di mobilitare rapidamente milioni di persone su siti web pro-Trump (come Parler, 4chan e Gab) e di decine di milioni di americani che non sono in grado di separare i fatti dalla finzione, soprattutto quando le informazioni false provengono da persone che dovrebbero essere fonti attendibili, come il presidente degli Stati Uniti.

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Per quasi un anno la squadra di fedelissimi che lavora per riportare Donald Trump alla Casa Bianca ha sconsigliato l’ex presidente dall’annunciare la sua candidatura per il 2024 prima delle elezioni di metà mandato (novembre 2022), temendo che potesse essere un freno per diversi candidati repubblicani del 2022 e che verrebbe incolpato nel caso di risultati per il Grand Old Party inferiori alle attese. Con i possibili avversari per la nomination (in prima fila il Governatore della Florida Ron DeSantis, l’ex vicepresidente Mike Pence, il senatore della South carlina Tim Scott, il Governatore del Texas Greg Abbott e l’ex ambasciatrice all’Onu Nikki Haley) a sperare che non lo facesse.

 

Le audizioni al Congresso hanno convinto ancora di più Trump, che sembra intenzionato ad annunciare la sua candidatura entro settembre. Secondo rivelazioni del magazine Rolling Stone, da settimane l’ex presidente ha chiarito ai suoi collaboratori come le protezioni legali legate all’occupazione dello Studio Ovale siano per lui la cosa più importante. Gli ha spiegato che «quando sei il presidente degli Stati Uniti è molto difficile per i procuratori politicamente motivati arrivare a incriminarti» e che quando sarà di nuovo presidente «una nuova amministrazione repubblicana metterà fine alle indagini». Il futuro dell’America si gioca nei prossimi mesi.