Sono giovanissimi, vengono dalla Svezia, dalla Finlandia, dalla Svizzera, dagli Usa. Alcuni sono esperti, altri ne parlano come se stessero andando all’Erasmus. “Andiamo a difendere la libertà dell’Europa”

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«Non hai paura di morire?». La domanda resta sospesa nell’aria per qualche istante. Mi fissa con gli occhi sbarrati mentre attorno a noi c’è il caos della stazione di Korchów Pierwszy, piena di rifugiati. C’è chi va e chi arriva, in coincidenza con gli autobus dalla frontiera tra Polonia e Ucraina, a soli pochi chilometri da qui. «Io non ho paura», e scoppia a ridere. «Dobbiamo combattere Putin, è lui la vera minaccia dell’Europa. Adesso però devo andare».

 

Il ragazzo si volta e comincia a correre verso i binari, come se avesse ricevuto un segnale che non ho colto. Lo inseguiamo verso il fondo della stazione insieme a un gruppo di uomini con zaino in spalla e scaldacollo a coprire bocca e naso. Lo raggiungiamo mentre lui si ferma e si appoggia al corrimano del sottopassaggio.

«Dobbiamo aspettare l’autobus, andiamo tutti in Ucraina. Vedi, siamo in tanti». Lui si chiama Romeo, è georgiano e ha già combattuto nell’Ossezia del sud nel 1992 ma ora che i russi hanno invaso l’Ucraina dice di non poter rimanere con le mani in mano. Sua moglie è incinta di sei mesi del quarto figlio, eppure non l’ha fermato. Me la passa al telefono. «Noi siamo georgiani e il 20% del territorio è occupato dai russi. Il problema è Putin. Adesso lui va in guerra perché in Ucraina si decide della pace di tutto il continente. Se la Russia perde, il mondo vince», dice Raquela, fiera consorte di un foreign fighter. Insieme a lui c’è un compagno di viaggio, ugualmente georgiano ma più giovane, non ha mai fatto una guerra, però ha qualche esperienza militare. Anche lui va a combattere con la resistenza ucraina per dare una lezione ai russi.

 

Il gruppo di combattenti spicca in mezzo alla folla di rifugiati ucraini. Sono tutti uomini, hanno eskimo verde militare o nero con le bandiere nazionali cucite sul braccio. Qualcuno ha con sé anche il giubbotto anti proiettile. Uno dei ragazzi che aspetta il bus sembra molto giovane. «Stai andando a combattere?». Non risponde ma ha una bandierina svizzera appuntata sullo zaino. Mi giro e spengo il registratore e allora mi dice che sì, sta andando in guerra. Viene da Berna, non ha amici o parenti in Ucraina ma ha deciso di combattere, perché l’invasione russa la considera un attacco alla libertà dell’Europa. Mentre parliamo il gruppone di soldati si muove e ci salutiamo.

 

Sono arrivati due autobus con finestrini oscurati pronti a portare tutti oltre il confine polacco. «Blahoslovy yikh Boh», urla una donna con trolley e passeggino. «Che Dio li benedica», spiega quando ci avviciniamo. «Stanno andando a combattere per noi, anche se non lo dobbiamo dire». Ormai è mezzanotte, ma il flusso di gente non si ferma. Anche di notte i pullman continuano a fare la spola dal confine alla stazione per portare i profughi. Poi ci sono, invece, gli autobus più grandi, che arrivano dall’Ucraina per portare sfollati da Kiev o Mariupol e ritornano carichi di gente che dalla Polonia fa il percorso inverso, per andare in guerra. Ma il governo polacco non vuole che si sappia e ha decretato che dalle 18, nei pressi dei binari e dalle banchine dei bus, non si può fotografare o fare video. Solo che evitarlo è impossibile, considerata la mole di gente. Ci sono anche molti polacchi che stanno andando a combattere in Ucraina, nonostante per il governo di Varsavia sia ancora considerato un crimine.

 

«Ma lo sanno tutti», ammette un agente alla dogana di Korchów. «Stanno passando tantissimi polacchi, ma anche inglesi, svizzeri, olandesi e anche tanti americani», dice. «Quelli, però, non sono alle prime armi come molti ragazzi. Sono ex marine, vanno ad addestrare le reclute». «E come lo sa?» chiediamo. «Lo hanno detto tranquillamente, c’è un assetto di guerra qui». Lo chiamano, deve andare. C’è una fila infinita di auto che sostano sulla carreggiata d’emergenza. Aspettano amici o parenti che arrivano a piedi dall’Ucraina, passando la frontiera attraverso la campagna che corre lungo tutta la super strada. E alla guardia di frontiera chiedono notizie. Nonostante il freddo pungente, si aspetta ore e ore, perché lo stesso tempo lo impiegano i profughi a mettere piede fuori dal loro Paese in guerra.

 

È a un tavolino di un caffè, il giorno seguente, che intercettiamo due ragazzi che discutono fitto fitto fra loro. Cogliamo al volo qualche parola e capiamo che stanno andando a combattere in Ucraina. Accettano di parlare e anche di farsi fotografare, sebbene il più giovane ammetta che sua madre non sa cosa sta per fare. «Ho 21 anni, vengo dalla Finlandia e non l’ho detto a nessuno della mia famiglia che vado in guerra, forse lo sospetteranno tra un po’». Lo racconta con la stessa tranquillità di chi dice di star andando a fare l’Erasmus all’estero. «Ma hai esperienza, sai come combattere?» Racconta di aver fatto un addestramento militare, di aver una specializzazione come cecchino e di essere pronto a vendicare il popolo ucraino. «Putin vuole conquistare anche la Finlandia, se non lo fermiamo ora, si riprenderà tutto il territorio dell’Impero».

 

L’altro ragazzo seduto al tavolino ha 35 anni e viene da New York. Sua moglie è ucraina ma insieme vivono da tempo a Chelsea, dove hanno un bar. Anche se sua figlia ha appena sei mesi, lui ha deciso di andare in guerra. Mentre il mio collega gli gira intorno con la macchina fotografica, dice che magari quelle sono le sue ultime foto. Senza nessuna ironica scaramanzia. Così, solo perché potrebbe essere vero. I due sembrano avere molta confidenza e invece scopro che si conoscono da sole sei ore. Si sono dati appuntamento a Korchów per partire l’indomani. Mentre sorseggiano un tè e un birra raccontano di essersi incontrati sul social network americano Reddit e di aver creato un gruppo di 25 persone, tutte seriamente intenzionate ad andare in Ucraina per lottare contro i russi. Si incontreranno a Yavoriv, a 25 km dal confine polacco.

 

È proprio a Yavoriv che mi dirigo anche io, dopo aver passato la dogana di Medyka. Dal confine e per una decina di km in territorio ucraino, la fila di persone che a piedi aspettano di entrare in Polonia è infinita. Sono migliaia e migliaia di donne, bambini, anziani. Tutti con la vita chiusa in un trolley in attesa di mettersi in salvo. E poi c’è la coda di auto che sembra un lungo serpente metallico. Ogni tanto si vede una macchina abbandonata, perché i proprietari hanno deciso di proseguire a piedi, invece di aspettare 24, forse 48 ore solo per fare qualche metro in avanti. È un’attesa dolorosa.

 

Arriviamo a Yavoriv, dove c’è il Centro Internazionale per la Sicurezza e le Operazioni di Peacekeeping che in queste settimane è diventato un centro di addestramento per i foreign fighters. A dirmelo è Olek, un uomo di 65 anni incontrato poco dopo aver oltrepassato la dogana. «È un centro di reclutamento, lì puoi trovare i foreign fighters che stanno arrivano da tutta Europa», racconta mentre carica viveri su un furgone diretto a Leopoli. Man mano che ci avviciniamo alla base militare, effettivamente iniziamo a vedere molti ragazzi e anche qualche ragazza con la mimetica, che parlano inglese. Sono evidentemente lì per un motivo. Alla base militare non possiamo accedere ma ci avviciniamo a un gruppetto.

 

«Stai andando ad addestrarti?», chiedo a un ragazzo che sembra molto giovane. Sono in sette all’angolo del muro di perimetro del centro, ma solo uno di loro accetta di parlare. «Sì, ci danno il materiale e ci assegnano una squadra». Il ragazzo dice di venire dal Belgio, ha 25 anni e con lui ci sono altri uomini, più grandi, provenienti dalla Svizzera e dalla Spagna. «Siete venuti qui perché è un centro di reclutamento?», chiedo e lui sorride, senza rispondere. Che la base militare di Yavoriv sia da qualche settimana usata come centro di reclutamento per i foreign fighters senza alcun addestramento militare precedente me lo ha confermato più di una persona. «È il posto giusto, perché è in una zona lontana dai bombardamenti ma vicina al confine, così che possiamo radunarci per poi essere smistati», dice un altro combattente. Ha 32 anni e non ha mai preso un’arma in mano. Poco più avanti, mentre beve un caffè, un uomo si ferma a chiederci chi siamo, da dove veniamo. Conferma di essere un soldato volontario pronto, dice, a immolarsi per la libertà dell’Ucraina. «Io vengo dalla Svezia», spiega, «mi sono unito a un gruppo Telegram e abbiamo parlato per qualche giorno. C’è stata una scrematura, perché alcuni erano solo fanatici ma non operativi. E alla fine siamo rimasti in 5 a fare sul serio». Gli chiedo se sa cosa succede dentro la caserma e se è pronto al tipo di addestramento. «Ci sono addestratori americani e canadesi, spiegano come sparare e quali sono le tattiche. Faremo esercitazioni. Qua arrivano anche tante armi, è top secret». Ma lo sanno tutti.

 

Fino a domenica scorsa, quella di Yavoriv era considerata una zona sicura e infatti in quell’area si erano accampati migliaia di ucraini in fuga dalla guerra, ma ancora non disposti a lasciare definitivamente il loro Paese. Ed è proprio lì che i raid russi hanno lanciato l’attacco con 30 missili che hanno ucciso 37 persone. Esattamente dove siamo stati noi qualche giorno fa, ora è un cumulo di macerie. «Dovei sei?» Uno dei foreign fighter mi ha lasciato il contatto Instagram e mi aggiorna sulla sua guerra. «Ero già andato via da Yavoriv», mi scrive, «ma so che hanno ferito molti compagni olandesi, inglesi e polacchi». Dice di essere in un altro centro di addestramento vicino Kiev e con lui ci sono anche ragazze, alcune molto giovani, che imparano a usare una mitragliatrice. «I’m still alive», il suo messaggio.