In Colombia, in Cambogia o in Tanzania si organizzano raduni techno a impatto solidale. Espressione di una controcultura da conoscere in cui gli eventi (realizzati con l’aiuto delle popolazioni locali) sono legati a un progetto umanitario

Un camion carico di cibo, vestiti, giocattoli e medicine viaggiava dall’Inghilterra verso Sarajevo tra le strade ghiacciate, dopo la firma del cessate il fuoco della guerra nei Balcani. Era l’inverno del 1995, alla guida si alternavano tre artisti del gruppo Desert Storm che in carovana con altri amici intrapresero un’avventura di solidarietà, che ispirerà tanti altri gruppi della scena dei free party (comunemente chiamati rave) in diverse parti del mondo. Feste di musica elettronica organizzate a scopo benefico per regalare materiali scolastici, fornire accesso a risorse idriche e portare altri aiuti alle popolazioni in zone di conflitto o in aree remote.

 

In Italia, i rave sono tornati sotto i riflettori dopo il primo decreto legge approvato dal governo Meloni lo scorso 31 ottobre che, tra le altre cose, introduce un nuovo reato contro chi li organizza e vi partecipa. Le persone che trasgrediscono rischiano di essere punite con pene da tre a sei anni di reclusione, anche se la parola rave non compare mai nel testo. «La norma potrebbe essere teoricamente applicabile a qualunque raduno che l’autorità pubblica reputi a suo giudizio pericoloso», spiega la giurista Vitalba Azzollini. «Giudizio del tutto discrezionale, perché il testo non fornisce criteri. Potrà dunque essere sgomberata qualunque occupazione non autorizzata se reputino possa risultare pericolosa», aggiunge.

 

Quel decreto legge ha riportato l’attenzione sul mondo dei free party, emblema di una controcultura nella quale trova spazio anche la beneficenza. «In Europa sono poche le persone che associano i rave alla solidarietà. Non si conoscono i progetti sociali che finanziamo con le feste organizzate dalla nostra associazione Syndrom Aktif e le persone si sorprendono quando li raccontiamo», spiega uno dei volontari che vive in Colombia da oltre un decennio, dove gestisce un campeggio a Mendihuaca, vicino alla Sierra Nevada di Santa Marta. Lui, come gli altri intervistati, ha chiesto l’anonimato per motivi di riservatezza e per dare valore al lavoro di gruppo. «Con l’autorizzazione delle comunità locali organizziamo un paio di volte all’anno feste di musica elettronica da circa 600 persone, grazie alle quali finanziamo progetti in due comunità dove viviamo e in altre quattro nel deserto della Guajira, quasi al confine con il Venezuela», aggiunge.

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L’aspetto solidale che può esserci in alcune tipologie di feste elettroniche, quindi, spesso non viene rilevato. «I rave sono l’espressione di un movimento culturale sia inclusivo e sia esclusivo, perché per accedervi bisogna aderire a specifici valori. La festa techno rappresenta una “manifestazione”, che non avviene scendendo in piazza, ma attraverso la riappropriazione temporanea di spazi, delineando tendenze di partecipazione e di innovazione sociale, e di opposizione ad un possibile riconoscimento mainstream. Non si analizza mai questo aspetto, perché si tende a riconoscere solo la condotta deviante», spiega a L’Espresso Raffaella Monia Calia, sociologa e assegnista di ricerca all’Università di Foggia. Si tratta, secondo la sociologa che segue questo movimento fin dagli esordi, di un’espressione culturale che non può essere gestita con la repressione. «I rave palesano uno scenario complesso di rischi e di opportunità e presuppongono livelli di azione e di scelta, da esercitare consapevolmente. Solo così possono rappresentare dei validi strumenti di socializzazione, di esercitazione identitaria e di sperimentazione, ovvero una valvola di sfogo che il sistema sociale dovrebbe concedere».

 

Un’espressione di controcultura che porta con sé anche un lato solidale, come l’esperienza di aiuto alle comunità della Colombia. «Con l’ultimo festival, chiamato Tropical Wave 2020, abbiamo guadagnato circa 5.000 euro. Tutto l’anno finanziamo i rifornimenti di acqua per le comunità locali: 10mila litri ogni due mesi per le comunità nel deserto, che hanno a disposizione solo pozzi abbandonati e i pochi funzionanti tirano su solo acqua contaminata», continua uno degli organizzatori. «Con i soldi restanti sistemiamo le scuole, consegniamo kit scolastici e facciamo attività con bambini e bambine: quello che ci motiva è il legame con loro e con i professori. Ogni volta che torniamo ci aspettano per condividere momenti e raccontarci i loro problemi, così da capire come possiamo aiutarli».

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Dall’America Latina all’Asia, le feste elettroniche diventano così anche un’occasione di scambio con la popolazione locale. «Per il festival del 2019 in Cambogia abbiamo realizzato strutture in bambù e yuta. In altre occasioni ci siamo occupati anche della creazione dei bagni secchi e di compostiere per la comunità locale. Cerchiamo sempre di creare un rapporto di scambio reciproco: noi apprendiamo da loro modalità nuove per realizzare biocostruzioni, di cui poi la popolazione stessa beneficerà», racconta una biocostruttrice del Biomimesis Project.

 

L’esperienza nel sud-est asiatico è stata un altro esempio di festival a scopo umanitario. Il progetto Travel to Cambogia 2019 ha unito quattro crew italiane provenienti dalla cultura rave e dei free party.

 

Da non sottovalutare poi l’aspetto collegato alla raccolta dei rifiuti. «In Cambogia – prosegue – così come in tutti i rave e le feste che organizziamo l’attenzione è massima, soprattutto nei Paesi in cui non esistono impianti di smaltimento. Abbiamo utilizzato materiali non inquinanti e biodegradabili. Nei festival canonici la gente è abituata che c’è qualcuno che pulisce dopo, mentre noi sappiamo che l’attenzione deve essere innanzitutto nostra».

 

«Quello in Cambogia non è stato un vero e proprio rave, perché l’ingresso, per i non autoctoni, era a pagamento. Questo perché l’obiettivo era raccogliere fondi. Inoltre, realizzare una festa sull’isola di Koh Rong non ha lo stesso senso di organizzarla in Europa, dove andiamo ad occupare spazi abbandonati a cui si cerca di dare una nuova vita, anche se per pochi giorni. In quell’occasione non volevamo essere gli occidentali che vanno ad occupare un’isola, ma desideravamo che fosse un momento di festa per tutti. Il party è infatti quello che più ci rappresenta, è il modo in cui riusciamo meglio ad attivare il contatto e la condivisione dei nostri valori», spiega una delle ideatrici del progetto umanitario.

 

Quello cambogiano era incentrato sulla scuola. «Dopo diversi studi abbiamo individuato un’associazione australiana, Shine Cambodia, che offre istruzione gratuita a Sihanoukville per bambini e bambine che si trovano in difficoltà estrema. Abbiamo trascorso giorni insieme, organizzando attività e realizzando le decorazioni poi esposte nei giorni del festival. Alla fine della festa siamo riusciti a consegnare materiale scolastico per far studiare oltre 200 alunni per un intero anno e le zanzariere per le aule».

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Finanziamenti per le scuole ma anche un’attenzione alle risorse che scarseggiano in aree rurali. Nel giugno 2022, altre crew della scena italiana ed europea hanno organizzato Expedition Tanzania. I giorni di festival a Bagamoyo (a 70 km dalla capitale) e la raccolta fondi partita mesi prima, hanno permesso di costruire due pozzi, donare due serbatoi per l’acqua e di consegnare 500 chili di materiale (vestiti, quaderni, matite), oltre a 4.000 preservativi in centri di sensibilizzazione e prevenzione, anche all’uso di sostanze stupefacenti.

 

L’attenzione legata al consumo di droghe è forte nel mondo dei raver, sia in Italia che all’estero. “Nelle nostre feste non esiste giudizio e pregiudizio e le sostanze vengono assunte in libertà, non nel bagno di una discoteca o nella solitudine della propria casa. Questo consente a chi fa uso di droghe di farlo in un contesto protetto. Molto spesso, infatti, i sanitari non sanno come trattare chi ha assunto sostanze, mentre in quasi tutti i rave sono presenti professionisti della “riduzione del danno”, che sono in grado di capire cosa la persona ha consumato e aiutarla se in difficoltà», spiega una delle organizzatrici. Dalla beneficenza alla riduzione del danno del consumo delle droghe, attorno ai sound system si crea un nuovo modello sociale che sfugge a modelli precostituiti. «Nella festa si costruisce, anche se temporaneamente, un tipo di società in cui ci si riconosce, lasciandosi alle spalle un sistema che viene interpretato come repressivo. Il rave resta quindi un’opzione dissidente di resistenza simbolica alla pressione normativa percepita, continua la sociologa Calia. Che riguardo alla componente solidale di alcune feste elettroniche spiega: «Ad oggi si fa fatica a riconoscere, istituzionalmente, la tendenza partecipativa insita anche in condotte giovanili dissidenti: solo adeguati strumenti di decodifica culturale saranno in grado di farci comprendere il valore sociale di alcune attività espressive, a forte caratterizzazione estetica e rituale, come i rave».