Sono le nuove frontiere della macchina della propaganda anti-occidentale allestita da Vladimir Putin. Con veleni più subdoli in Paesi con meno antidoti di un’Europa già intossicata

Africa e America Latina: se il vostro lavoro fosse quello di essere agenti della disinformazione e della propaganda russa e filoputinana, è lì che stareste guardando. Altro che le piazze, complicate e, del resto, ormai sature di Europa e Nord America. L’Eldorado della disinformazione, delle teorie del complotto, delle bufale e della propaganda, ormai, è altrove.

 

Si trova in società di Paesi che, per varie (e per lo più storicamente fondate) ragioni sono già intrise di sentimenti di ostilità e di rancore verso Europa e Usa e che, dunque, sono meglio disposte a bere le nefandezze che, inventate o meno, vengono dette sul loro conto.

 

Così da qualche tempo (grosso modo una decina di anni, ma con maggiore forza negli ultimi mesi, dopo lo scoppio della guerra) la propaganda via social e via fake news che origina (non solo, ma soprattutto) da Mosca, mira a ripetere con le opinioni pubbliche di Africa e Asia lo stesso giochino che le è riuscito con quelle europee, balcaniche e statunitensi: dividere per controllare, inquinare per intossicare, mentire per delegittimare.

 

La ragione per cui lo fa è sempre la solita: indebolire l’Occidente e le istituzioni internazionali e rafforzare se stessa. Solo che la strategia per farlo, specie dall’inizio della guerra, non è più quella vecchia, dritta, diretta esplicitamente al pubblico occidentale. Ma una più obliqua, di sponda, che mira a diffondere contenuti antioccidentali e antimultilateralismo, non solo nelle opinioni pubbliche occidentali, ma anche tra quelle tra i loro vicini di casa, così che il risentimento e la delegittimazione siano globali, condivisi.

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Le società dei Paesi di Africa e Sud America si prestano eccezionalmente bene al compito: sia perché, appunto, già predisposte a una certa (comprensibile) diffidenza verso l’Occidente e le istituzioni internazionali, sia perché già, e per i fatti loro, frammentate, divise, fragili, spesso povere e corrotte. Inoltre, a rendere quelle società più appetibili e permeabili, c’è anche il fatto che sono ancora prive del dedalo di regole e regolamenti anti fake news che, negli ultimi tempi, hanno preso forma in Occidente e, in particolare, in Europa.

 

«Quando è iniziata la guerra della Russia in Ucraina, Facebook, Twitter e altri giganti dei social media si sono mossi per bloccare o limitare la portata degli account della macchina di propaganda del Cremlino in Occidente. Lo sforzo, tuttavia, è stato limitato dalla geografia e dalla lingua, creando un mosaico di restrizioni piuttosto che un divieto generale. Il risultato è stata un’asimmetria geografica e culturale nella guerra dell’informazione sull’Ucraina che ha contribuito a minare gli sforzi guidati da americani ed europei per esercitare un’ampia pressione internazionale su Putin affinché sospendesse la sua guerra», scrive il New York Times.

 

Così, visto che diffondere bufale in Occidente è diventato sempre più faticoso (anche se tutt’altro che impossibile) le fabbriche dei troll (come vengono chiamati i veri uffici nei quali lavorano persone il cui compito è diffondere e creare contenuti fasulli e incendiari da diffondere sui social) hanno iniziato a rivolgere le loro attenzioni ad altre piazze, altri mercati, altre strategie.

 

Un report dell’Africa center for strategic studies (ente che, a dispetto del nome, ha sede e cuore negli Usa) scrive: «Negli ultimi anni, dozzine di campagne accuratamente progettate hanno pompato milioni di post intenzionalmente falsi e fuorvianti negli spazi sociali online dell’Africa. La conseguente confusione nel decifrare i fatti e distinguerli dalla finzione ha avuto un effetto corrosivo sulla fiducia sociale, sul pensiero critico e sulla capacità dei cittadini di impegnarsi in politica in modo equo, la linfa vitale di una democrazia funzionante».

 

Com’è ovvio, più le situazioni interne dei Paesi presi di mira sono complesse e fragili, più la propaganda attecchisce. «Tutte le nazioni del Sahel soffrono di estremismo violento e sono rimaste deluse sia dalle forze di pace delle Nazioni Unite che dall’esercito francese che hanno tentato di stabilizzare la regione. Con molti governi regionali ora rivolti a Est, il sentimento filorusso si è diffuso attraverso campagne mediatiche in parte finanziate da oligarchi russi», scrive un report di Icds, International centre for defence and security, con sede in Estonia.

 

Una situazione simile, seppur in contesti diversi, si verifica in alcune aree dell’America Latina, dove l’emittente, Actualidad RT, diramazione in lingua spagnola di Russia Today (emittente interamente finanziata e controllata dal Cremlino, e messa al bando in Europa), è uno dei canali più popolari e seguiti sin dalla sua fondazione nel 2009 (la sua pagina Facebook ha circa 18 milioni di follower) e si premura di diffondere contenuti populisti e demagogici contro le istituzioni locali (soprattutto se filoccidentali) e soprattutto infamanti verso Onu, Nato, Usa e Ue.

 

Già nel 2015, il responsabile del comando meridionale degli Stati Uniti, il repubblicano John Kelly, dichiarò davanti alla commissione per i servizi armati del Senato che «periodicamente, dal 2008, la Russia ha perseguito una maggiore presenza in America Latina attraverso la propaganda, la vendita di armi e attrezzature militari, accordi antidroga e commercio. Sotto il presidente Putin, tuttavia, abbiamo assistito a un chiaro ritorno alle tattiche della Guerra Fredda».

 

Una situazione che si è acuita e rinsaldata negli ultimi anni, soprattutto dopo i mondiali di calcio del 2018, che la Russia ha usato per accreditarsi con il pubblico latino e costruirsi un «seguito leale».

 

Un seguito leale che paga e funziona se è vero che, nel Brasile della campagna elettorale di Jair Bolsonaro e Ignacio Lula da Silva, i due candidati sono sostanzialmente concordi nel non condannare la Russia per la guerra ma nel ritenere l’Ucraina colpevole delle violenze tanto quanto Mosca. «Proprio come le loro controparti di destra, i sostenitori di sinistra del Cremlino insistono sul fatto che è stata la Nato a “provocare” la guerra e che la Russia si sta semplicemente “difendendo”. Stanno anche respingendo le notizie credibili di crimini di guerra, crimini contro l’umanità e persino genocidi provenienti dall’Ucraina come “distorsioni” occidentali e “propaganda Nato” finanziate da George Soros (ironicamente anche lo spauracchio dell’estrema destra antisemita)», scrive Al Jazeera.

 

Questa incapacità di distinguere le cose, i piani, le cause e gli effetti, i carnefici e gli aggressori, è esattamente il segnale del fatto che una campagna di disinformazione è andata a segno e che, ormai, sono state dette e diffuse talmente tante e tali bugie, teorie, menzogne, che distinguere i contorni della verità si è fatto impossibile.

 

Una storia esemplificativa, in questo senso, è quella di Alina Afinogenova, una giornalista russa perfettamente bilingue in spagnolo che, per anni, è stata il volto più noto e popolare di Russia Today in America Latina. I suoi video, molto efficaci, accattivanti e ben fatti, hanno diffuso il verbo del putinismo, negato l’idea stessa che esistesse una propaganda russa, e attaccato con ferocia i leader occidentali. All’inizio del 2022, Afinogenova, aveva scritto e pubblicato più volte in merito al fatto che non ci sarebbe stata nessuna invasione russa e che, tutto questo vociare e cianciare di attacco imminente, era solo frutto della paranoia di Joe Biden e della ricerca occidentale di un pretesto per attaccar briga. «Verrà gennaio, poi febbraio e marzo; il 2022 finirà... e sicuramente continuerai a leggere sui media mainstream che l’invasione russa dell’Ucraina è imminente», disse nel dicembre del 2021.

 

Le cose poi, lo sappiamo, sono andate diversamente e le previsioni di Afinogenova si sono rivelate un buco nell’acqua. Per settimane la giornalista, in genere molto prolifica sui social, è rimasta in silenzio. Poi, il 3 maggio, ha pubblicato un video nel quale annunciava le sue dimissioni da Russia Today e la sua disapprovazione della guerra. «Non capirò né giustificherò mai nessuna guerra che persegua i civili. Non so se la piattaforma su cui ho lavorato per tutti questi anni fa propaganda. La verità è che non lo so. Ma io, personalmente, non farò propaganda di guerra». Potrebbe sembrare (e magari forse è) un’epifania improvvisa, un pentimento in extremis, un ravvedimento scatenato dalla brutalità oscena della guerra. Ma il problema è che, nel gioco di specchi e di bugie che è l’architettura stessa delle campagne di disinformazione, nessuno sa più niente.

 

Nessuno, nemmeno i più informati, accorti e preparati, conoscono più la saldezza della verità. Così ora che, dopo qualche mese di silenzio, Afinogenova è diventata una presenza fissa nel podcast quotidiano spagnolo La Base, scritto e condotto dall’ex leader di Podemos Pablo Iglesias, risulta difficile capire se è la sinistra spagnola che ha arruolato nelle sue file un’ex punta di diamante della propaganda putiniana, oppure se è successo esattamente il contrario.